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Fu. Nel castèl fatàl dei Cavalièr
del Tempio geme, ella, la prigioniera,
pàllida in volto, e co’ i biondi capelli
che si fanno più falbi, e senza più
le parrucche, e le ciprie e i finti nei,
ella attendendo il giorno ùltimo, estremo,
rea di una gioventù che mai si crebbe,
come una fanciullina non cresciuta.
La follia le dipinge gli occhi cèruli,
e la fame le solca il labbro e le ombre
delle guance un dì rosee, eternamente
intimorita dai fùlmini oscuri
della Notte d’estate, e dalle Furie
di una Luna di sangue che inargenta
l’òrrida lama che sta sulla piazza.
Ella fu... ella, perduta tra i sentièr
di una tomba vivente, e tra la cera
d’un dèbil lumicino che gli avelli
allùmina del pianto, e della più
oscura stanza, presso i spettri dei
figliuoli imprigionati: un bimbo al seno
ella in dolore culla. Un giorno lo ebbe
malato, un morbo mortale, e perduta
è la sua spene. Il pàrgolo ha occhi trèmuli,
e lo chiàmano ghiotte tante tombe.
E la madre lo culla - dolcemente -
tra i Mostri che dipìngon questi muri,
ella piangendo, e nascondendo i gèmiti,
ella dei nobili - ahi! - l’ùltima razza.
E qui nessuno ha pietà di una donna
che porta in braccio il bambìn suo ammalato,
bimbo che dêe morire.
Le Furie han tolto le fole. La donna
queste Notti trascorre lagrimando,
dove la colpa fu èssere regina,
e non sapèr, non volèr governare.
Discinta e scalza nel gelo del vespro
d’un Temporale estivo, ella sta chiusa
in una torre antica, qui, ‘ve piove
dal tetto e la mobilia si consuma
ammuffita dall’acque e dalla vecchia
età: un ùnico letto ora inondato,
e le coperte che odòrano di acre
pòlvere disumana, e che ora tòlgono
ogni respiro, come aspri sudari
di bare anònime e di tombe infami.
Le Furie han tolto le speni. La donna
spira velocemente ora invecchiando,
sur d’una sedia immòbile e supina,
il moribondo figlio intenta a urtare
con dolci abbracci e con finti sorrisi,
poiché ella stessa sorrìder non sa
più. Eternamente finge; ma commuòve (si)
il cuore insano; e la sua bocca è spuma
di bava di päùra. Ed ella invecchia...
invecchia sempre. Il ventre suo è affamato,
e nulla ha da mangiàr che due carni aspre:
il suo febbrile labbro; e ombre la assàlgono
di deliri inumani, ghiotti mari
che negli abissi la trascìnan tosto,
scogli dai quali è venuta una bestia,
un Mostro che le pòrpore ha indossato
dei Re, e che sprezza Iddio.
Dalle fessure del muro uno strale
di cupa Luna entra, e le bacia i piedi,
e una candela la cinge di lume.
Ella si china a baciare la fronte
del bimbo che non emette più nulla:
è ancora calda. Non è morto. Ahimè!
Si è addormentato, alfìne! E vedrà ei ancora
un altro giorno?... Frattanto tante ombre
pìngono un Orco sulla nuda pietra,
un’ombra che si scaglia contro il volto
scarno della regina, la qual duole
vedendo il figlio... duole delle doglie
del rimembrato parto. E il Mostro tiene
un pugnale, è agguerrito, e vuole sangue.
La prigioniera geme; e stringe il corpo
dèbole del bambino, e abbassa gli occhi
su di lui: teme le fauci dell’ombra
crudele. E il piccolino ora a tossìr
inizia, e sputa il sangue dei polmoni
tìsici e affranti, ùmidi, e inesistenti
per il Pòpolo ghiotto ancòr di miètere
la Vita. E la regina piange... e piange,
asciuga il labbro del pìccolo amato
con la sua veste di straccio e di pòlvere,
e lo culla... e lo culla. E pensa: quante
volte ha richiesto un mèdico ai suoi... ai suoi
carcerieri, ha implorato pietà indarno
per un nato innocente. E pensa... e vede:
è giunta l’ora per lo sposo. Fòrbici
tàgliano il crine che or ‘la seppe amare
davvero. Suona l’ùltima gavotta
di quest’ùltimo addio. Egli parte tra
ceffi e moschetti, e più... e più non ritorna:
gli hanno strappato il collo... il cuor dal petto.
«Dov’è papà?» i figliuoli le domàndano.
Rimembra questi detti: «Papà è morto!».
Oh mìsera regina!
Fu. Nel castèl fatàl dei Cavalièr
del Tempio geme, ella, la prigioniera.
È Notte. È estate. La Vita trascorre,
e la giustizia tace, e regna il pugno
delle indomàbil Furie. L’ira cresce,
e il Pòpolo non sente urlàr pietà.
E redenta si duole una fanciulla,
che piange sul volto del figlio,
che spera nel Cielo di Dio,
nella sua càmera
della prigione,
presso la Morte
d’un bimbo tìsico.
Le mani prone
prègan la Sorte.
Ora anch’ella in cuor sente un desiderio
che ha nome Libertà. |
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