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Fosco e atroce s’erge un fiordo,
è un ricordo
d’un’antica e trista pugna,
onde andava un re vichingo -
che me’l pingo -
scure in mano, aguzza l’ugna;
e le nevi, e i ghiacci e i fonti
gli aspri monti
piovon pietre al mar, all’onde,
e in su’i scogli van le leste
acquee creste
che s’innalzano iraconde,
e le selve all’ime valli,
e in su’i calli
giaccion fredde, e cupe e illuse
son da’i platani e da’i mirti,
dalle sirti,
fiero son di cornamuse,
e possenti son le cime,
e sublime
e solinga fia una vetta,
e ai lor piedi l’Ocëàno
è sovrano
del tonàr, della saëtta.
Urla ‘l vortice del mare,
e mi pare
che la nebbia scenda a frotte,
e contemplo ‘l suo mantello
su’ un vascello,
e ‘l funesta l’empia Notte,
e le danze sento e i bardi,
scorgo i cardi
e le rose cristalline,
e le viole della neve,
odo ‘l lieve
divinar dell’indovine,
e raggelo, e l’alme saghe
e le vaghe
fole atroci in ansia ascolto,
e d’un tòno ‘l strale effuso
miro in suso,
e d’Odìn s’oscura ‘l volto;
e allor vien l’amata Luna -
alba e bruna -
e n’inonda l’orbe rade,
e lontan accozza un ferro,
è uno sgherro
che d’altrui le messi invade,
e ne intendo e i crudi e freschi
e i guerreschi
corni ansanti all’eco oscura,
e la Tenebra discende
non s’accende
che di foco la radura,
e sen gìan del mar gli abissi,
s’io vagissi
più n’avrei terror, vergogna,
e si gemono l’Ondine,
dall’alpine
rocce grida una zampogna,
e i marosi e la tempesta -
ch’è funesta -
spargon Morte ovunque io vada,
e la nebbia piove all’acque,
onde tacque
già più volte la contrada.
Maraviglia! La burrasca
va alla frasca
e dell’àliga e d’un scoglio,
e la veggo, un’onda infrange
ivi, e piange
d’un corallo ‘l reo germoglio,
e l’abisso giace e nero
è foriero
d’uno speglio all’aspra Notte,
e la bianca nebbia aleggia
e lampeggia -
ima nube - alle mie rotte,
e l’albugine si stende -
e l’offende! -
in sul vortice marino,
geme ghiaccio, versa pioggia
e s’appoggia
sull’eterno del Destino;
e in sul fiordo spira ‘l vento,
è un tormento
d’un guerrier che invan moriva,
e una folgore ne iscoppia,
e raddoppia
l’eco osceno a questa riva,
e su’ un valico v’è un faggio,
sta ‘l foraggio
che i villaggi ne accudisce,
e un reo lampo va su’ loro -
pinto d’oro -
e crudel l’incenerisce,
e la grandine sen cola,
e s’invola
la bufera al mio cospetto,
e sen geme l’egra strige,
e ne indige
il cor mio qual sia l’aspetto:
se sia bruno, oscuro o negro,
fors’allegro,
se le piume sian castane,
smorta o nera l’empia coda.
Ma ch’io n’oda
le sue saghe e meste e arcane!
Canta un inno al ciel serale,
allo strale
della Luna e fioca e rozza,
al guerrier che i mar disfida,
all’infìda
scure - orror! - di sangue sozza,
all’incognite contrade,
alle rade
d’un’ignota e mite landa,
ove inebria ‘l cielo ‘l vino,
onde Odino
di sol tralci n’ha ghirlanda,
e ai miei fiordi grida e piagne,
son le lagne
delle nordiche maree,
e in su’i flutti veggo un spettro,
uno scettro
di bocciòli e di ninfee.
L’orizzonte si dileggia,
si vampeggia
di saëtte e d’empia quiete,
e la folgore è di ghiaccio,
e io men taccio,
e degli Asi ho folle sete,
e la drakkar del Normanno
in affanno
trista naufraga e n’affonda,
è la tomba l’acqua inerme,
ed è ‘l verme
l’orbo legno che ne gronda;
e io men giaccio, e tremo, e piango,
son nel fango
d’una pallida palude,
miro ‘l culmine del fiordo,
mi fa sordo
un pio sogno che m’illude,
e contemplo ‘l mar furioso -
burrascoso -
dalle valli crollan pietre,
scende un’orrida valanga,
l’onde infanga,
e raggela tosto l’etre,
e in sul mar di questa sera,
su’ un’altera
fronda ignuda v’è un’imago:
è un fantasima che geme,
non ha speme,
bello e dolce e inquieto e vago;
e m’appar tra una betulla
la fanciulla
che i guerrier conforta estinti.
Fors’è un sogno! Chioma bionda,
iraconda,
freschi seni ai fiordi avvinti,
e m’assale un pio desiro,
un sospiro
che m’allieta l’ansio cor.
Fors’è vano, fors’è indarno,
cupo e scarno
crudo foco dell’Amor! |
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