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La Notte piagne e ‘l campanil la svela,
e le contrade si copron di Luna,
e ‘l cielo torbido e tetro si gela,
e posa inquieto sur d’orrida cuna,
e i sentier miseri e i campi rivela
sol l’ombra infìma tra l’oidi, e nessuna
quercia si scerne ché ‘l viver si cela
pell’aura ansiosa che fecesi bruna;
e la Natura d’intorno al bel borgo
si dorme tacita, e ‘l verno lamenta,
e remigando più nulla ne scorgo,
sol la Tempesta e una bianca tormenta,
e alla finestra men vado, e m’accorgo
che del villaggio ogni lampada è spenta.
Sento un odor di menta,
e lunge alquanto si pinge una pieve:
la porta fredda, e un’effigie di neve.
Ma pur mirando una quieta cascina,
e i casolar che dormono, e le motte
sovvienmi al guardo d’un’onda ferina
l’ansante scorrere e l’ascose grotte,
e da me lungi, l’Arbogna cammina,
freddo torrente vestuto di Notte,
e un sogno amaro allor me la destina,
e l’acque sue m’impazziscono a frotte,
e n’odo ‘l sibilo e ‘l dolce ondeggiare,
ed è un sapor d’un ghiaccio che si scende,
e ‘l niveo vento lo fa dondolare,
e d’astri fiochi e di nembi s’accende;
e le sue ripe son docili e care,
gorgo infernale che ‘l suicida attende.
Un brivido mi prende;
e ‘l cor m’affoga in quest’ùmile giostra,
e quest’è un incubo, ed ei mi si mostra.
Rimembro allora che lì sta un mulino -
ch’è detto novo - dormienti le pale,
e l’aspre màcine e ‘l grano meschino
ghiacciansi all’îr del truce maëstrale,
e l’acque vanno, e scorrono e ‘l cammino
seguon d’Occàso, e nel gelar spettrale
son tetri spettri d’un vano Destino
che ripe ed onde e feroce n’assale,
e l’acqua scorre, e l’airon... la cicogna
terge d’un soffio, ne inonda i bei nidi,
e senza mete, e priva di vergogna
sen va fugace vêr àlteri lidi;
e quest’è ‘l freddo vagar dell’Arbogna,
mesta e solinga pe’i venti sì infìdi.
N’ascolto ancor de’ gridi:
affoga ‘l sogno in su’i gorghi dell’acque,
muore la speme che un giorno mi piacque.
Un dì - rimembro - che giovin bramavo
îr al torrente e sedermi in su’i marmi
ove e le dame e gli amici sognavo -
che mai non ebbi - e i profumati carmi,
mirar le trote fors’anche desiavo,
parlar ai pesci d’Amori e dell’armi,
ma colsi inerme sol quel che mertavo -
Vita di studio - che Iddio poté darmi;
e tuttor sogno l’Arbogna e i suoi salci,
e i pioppi e i pini che stanno d’intorno,
e i biondi campi mietuti da falci
i qual adesso si ghiaccian; e ‘l giorno
e Notte intiera ravvivano i tralci
de’i miei desiri e d’un ghiacciato orno.
Orme n’ammiro d’alci,
e in queste ansiose e sì sognate forme,
forse ‘l mio cor - sazio di sogni - dorme.
Alla finestra mi seggo, e a Mortara
scorgo ‘l torrente che va e ad Albonese,
e ciò che cade - dal ciel neve chiara -
l’argento suo all’onde ne fa palese,
e l’acque scorrono, e a un fucil che spara
treman di Notte, di Morte è ‘l paëse,
e l’onda mesta mi pare una bara
che si sotterra del verno nel mese;
e in sulle ripe e i frassini e i cipressi,
e l’alte roveri e i salci spogliati
stanno, e le paglie dell’orride messi
mostrano ai nembi i sorrisi troncati,
e v’hanno spettri: e ramoscel son essi
de’i bianchi pioppi da me tanto amati.
Avversi e crudi Fati!
Io per te in sogno ne dimostro un culto,
e piango sempre e nel core un singulto!
Oh borgo antico che in sogni mi palpiti
affanno ardente d’Amore perduto!
Oh bella Arbogna che all’ignoto salpi
or che n’ascolti l’affranto mio liuto!
Bel orizzonte notturno e dell’Alpi
che l’estro mio ridesti e che se’ arguto!
Oh spoglio salce che d’intorno scalpiti
orrendo e inerme e di nevi vestuto!...
Vi sogno ancora, e pell’ansiose rive
erro meschino, e poi veggo la chiesa
dell’alta Vergine, e le guglie vive
che mi sovrastano ancor l’alma arresa,
e per voi lagrime io spremo corrive,
son senza Amore, ed è questa un’offesa.
Ormai la Notte è ascesa:
l’Arbogna è negra, e la domina ‘l Nulla.
Ove se’ tu, o Musa, amata fanciulla?...
L’onda mi sembra blesa,
e scorre incauto e lontan l’Erbognone,
e fugge e muor sìccome una passione.
L’acqua mi par sia tesa;
un pianto ignoto mi trapassa ‘l core,
istranio al borgo, e perduto... Dolore! |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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«L'ultimo Sonetto di quest'Ode presenta la tecnica dell'endecasillabo crescente. Oh - bor- go_an- ti- co - che_in - so- gni - mi - pal- pi (verso 1) -ti_af- fan- no ecc... In presenza di questa tecnica l'ultima sillaba atona va letta non nel verso di appartenenza ma nel verso successivo, per avvenuta episinalefe... Più che una vera presa si posizione crepuscolare, si tratta di un semplice virtuosismo.» |
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