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È la steppa un fior di nevi,
scendon lievi
l’acque nivee della sera,
e si spasima un lichene -
senza spene -
scioglie al Cielo una preghiera;
e la parca cattedrale
al mortale
batte i bronzi del rosario,
fende ‘l nembo, e un’ombra cara
nella bara
copre ligia d’un sudario,
e le guglie d’almo argento
in tormento
si ricoprono di Notte,
e l’effigi stan tra’i canti,
pingon tanti
antri sacri e sacre grotte.
La candela iconoclasta
li sovrasta,
sparge odori e incensi sacri,
giglio ed iris freddo e aulente,
fior d’Oriente,
fochi etesi e fumi alacri,
e s’infuria l’incensiere,
un messere
l’alza e prono ‘l dà al Signore,
stan broccati d’oro avvinti -
vel discinti -
freddo è ‘l vento, fresco umore.
L’organello accenna i trilli,
fa de’ squilli,
con un cero l’ortodosso
sant’abate benedice
l’infelice
che sen giace fatto d’osso,
e l’eclisse annebbia i muri,
son oscuri,
l’Orda d’Oro sta alle porte,
vanno i Khan a guerreggiare.
Quest’è un mare
di certami e poi di Morte;
e la chiesa inquieta e bella,
la cappella
son di legno, e ‘l battistero
è un nocciòlo oscuro e veglio,
fa da speglio
al peccato ed al Mistero.
I pastori vanno a frotte,
presto è Notte,
pregan mesti i contadini,
e fuor s’ode d’una danza
l’alternanza,
torneamento de’i Destini;
e ‘l villaggio l’acque piove,
si commòve,
i muscosi suol son colmi
d’albe nevi son adorni,
piangon gli orni,
le betulle, i tigli e gli olmi.
I Cosacchi bevon nappi,
fanno i cappi,
ora sellano i destrieri,
sfidan d’empi Polovesi
i paësi,
e son bruti, e sono altèri.
È Domenica di festa,
l’aura è mesta.
L’ansia steppa inquieta geme.
Folle è ‘l verno, oscuro è ‘l cielo;
tutt’è gelo...
muore ‘l Sole, e muor la speme.
Ma un sorriso in sulle biade
or m’invade,
e ‘l mio cor ancor dirà,
o bella e dolce e pia fanciulla,
dal mio Nulla,
Ya lyublyu, lyublyu tebya. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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