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Sorge il Sole ogni mattina di Alberto De Matteis
Minuzzoli di pane 2 di Berta Biagini
Sonetti Arcanici di Franco Scarpa
Un ‘emozione in volo di Rita Angelini

SpiegaPoesie riproposte
Un sogno di donna di Marco Vidotto
Parole di Stefano Acierno
Quando il destino di Elena Artaserse
Vulesse da’ (Festa dei Gigli di Nola) di Peppe Cassese
Presunzione di Silvana Poccioni
Bob di Stefano Acierno
Esalazioni dimezzate di rosanna gazzaniga
Pioggia e nozze a Rocca- Morreale! di Giuseppe Vullo
Figlia Di Un Tempo Diverso! di Adele Vincenti
Sollievo di rosanna gazzaniga

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La Ballata della Regina

Fiabe
«V’era una giovine arciduchessa,
bell’era e bionda; e un’austra regina
ne fu la madre. La pia fanciullina
un giovin musico un giorno incontrò.

Ei volse al cembalo, poi si sedette,
lei mirò estatico ‘l suo occhio d’Amor,
poscia sognandola avorio premette,
e un minuëtto battevagli ‘l cor.

La principessa sentivalo in estasi,
e de’ sorrisi volgevagli incauta.
Anco la corte sì splendida e lauta
parea sedotta da lui che sonò.

V’era una docile fiamma nel seno
della fanciulla che stette cinqu’ore
dianzi al concerto, e subito Amore
casto ed arcano e gentile parlò.

E ‘l musicista, sonando a memoria,
spesso volgevale torridi spir.
Perfin i palpiti della sua ustoria
ed ansia arteria co’ soni s’udîr.

Morì ‘l concerto, ed i plausi s’alzavano,
ed ei tra inchini costei salutava,
e colle palpebre forse baciava
il labbro; e l’iride lieta l’amò.

V’era una debile voce d’arcano
che alla donzella profferse d’alzarsi,
ed ella alzandosi co’ crini sparsi
vêr il prodigio radiosa n’andò.

Il giovinetto la prese alla mano,
e le baciava l’asburgico anel.
Ella l’alzava e al labbro un profano
gli schioccò un bacio, sapore di Ciel.

Niun de’i presenti gridava un diniego,
l’alta regina plaudiva coinvolta,
ed il bel musico la chioma folta
cingea d’un core che allor ricambiò.

V’era tal gaudio, restò per un mese,
ed i due giovini gl’ischerzi e i giuochi
condividevano tra caldi fochi,
e ‘l lor imene l’Impero giurò.

Per man tenevansi presso la corte,
tra’i mirti e i gelsi de’ dolci giardin,
battean le scale di marmo e le porte
con una corsa, co’ un solo cammin...

ed ei parlava di docile musica,
ella ascoltava, fiatava di moda,
e poscia insieme dicevan: «Che goda
l’Amor supremo che ci incatenò!».

V’eran de’ platani presso ‘l verone,
ed ei scalavali nel cor di Notte,
e la sua dama copriva di frotte
di molli baci che ‘l labbro infuriò...

ed ei sen stava col sciolto farsetto,
ella discinta l’impronta del sen
mostrava lieta... e un casto diletto
spesso abbracciavali come un balen.

Ogni meriggio giravano insieme
pe’i fitti boschi, pe’i splendidi parchi,
man alla mano... ed erano carchi
d’una passione che mai si trovò.

V’era, ahimè, altrove un giovine principe
che non aveva ancora una sposa.
Il regal padre con lettera ascosa
l’arciduchessa ai suoi domandò.

L’austra regina accettava spergiura,
ed alla figlia svelava l’arcano.
Ella gemeva: «Sventura! Sventura!»
ché non voleva sposare un sovrano.

Ma la sua madre le impose lo scorno,
e ella ‘l silenzio al musico infranse,
quando lo vide di sera ben pianse
e l’empia offesa soffrente svelò.

V’era nel giovine un cumulo d’ira.
Disse: «Fuggiamo!» ed ella approvava,
ma un stuol di servi costoro fermava
ed ai due amanti la corte gridò.

Del sommo musico l’orrido padre
prese ‘l figliuolo e tosto fuggì,
e della misera l’avida madre
cruda e furiosa e bruta impazzì.

Chiamò i stallieri nel cor della Notte,
volle una candida ed alta carrozza,
colla sua dote - dell’oro una pozza -
la mesta figlia sur d’essa recò.

V’eran le lagrime sovra le palpebre
della fanciulla che insonne viaggiava.
Verso la Luna gemente lagnava
la sorte orribile che la centrò.

Viaggiò per giorni. Voleva fuggire.
Ma l’aspre porte sprangâr i cocchier.
Voleva gridare. Bramava morire.
Mirava ghiotta i vicini sentier.

Frattanto ‘l musico stava in castigo,
chiuso in sua camera l’egro pianforte
sonava mesto col cor vêr la Morte,
e la sonata... a lei dedicò.

V’era alla corte del principe infausto
desio di guerra da far all’Impero.
Giunse la dama cui un uomo sincero
svelò ‘l segreto che all’Austria tonò.

Or per salvare la Patria funesta
l’arciduchessa lo sposo accettava,
e tra’i confetti, la danza e la festa
il giovin prence fingendo sposava.

Tant’era in doglie che mai più non crebbe,
fors’anche insana si chiuse in sul fasto,
pensò alla moda, all’oro e ‘l nefasto
suddito popolo sempre ignorò.

V’era in sul trono d’un volgo istraniero
una fanciulla impazzita d’Amore.
Ebbe de’ figli... Doleva ‘l suo core,
e ella bambina qual essi restò.

L’empio marito - sovran d’un’oppressa
turba - sprezzava nel fiel d’un segreto.
Sdegnava ‘l popolo, odiava se istessa,
e ‘l suo palagio sembravale inquieto.

Lungi frattanto del giovine musico
l’egra salute si prese un malanno;
ed ei sì povero e preso d’affanno
colmo di debiti giovin spirò.

V’era al castello un prode Svedese,
Hans si chiamava, piacevagli ‘l ballo.
Tra un stuol di maschere e pinta di giallo
l’austra fanciulla costui adocchiò.

«Siete la somma!» le disse galante.
Ella si tolse la larva e ridè.
«M’avete colto!» sclamava; e l’amante
allora dissele: «Vi cado ai piè!».

Ancor più volte costor s’incontrarono,
e tra le musiche, le laute feste -
sotto le volte di pietre funeste -
più d’un abbraccio da loro schioccò.

V’era un solenne salòn da teätro,
e lì i due amanti de’ gran melodrammi
lieti ascoltavano, e i lor diaframmi
ebbêr un spiro che un solo sembrò.

Alla fanciulla un sogno d’Amore
giunse novello... e fu lusinghier.
Lungi dal rege posava in sul core
del giovin prode che volle braccier.

Eppur un vespro sen stavano uniti
ed imprudenti dappresso i giardini.
Li scorse un servo che questi meschini
al re grandissimo poi denunciò.

V’eran de’ boschi vicin al palagio,
qui lo Svedese n’andava a cacciare.
Era una sera del verno in sul fare,
Hans alla caccia per ore restò.

Pur annottava... Miei figli, non posso!»
sclamò fermandosi la madre loro,
ed un de’i bimbi sclamava: «L’adoro!
Mamma, continua la fiaba a narrar!»,

ed ella stette col pianto celato
in sulle palpebre roride ed unte,
e le pupille parevano munte,
ed iniziavano... a lagrimar,

e disse poscia: «De’ boschi sen stavano -
già ve lo dissi - dappresso l’ostello.
Hans sotto ‘l cielo d’un vespero bello,
presso la Notte, per ore cacciò.

Era a cavallo, seguiva una lepre.
Questa fuggivagli. Un cervo si scorse.
Premea col trotto d’un pioppo la vepre,
l’aspro mastino la vittima morse.

Pe’i ciel sonavano i corni da caccia,
le foglie secche cadevan da’i rami...
smorte vibravano all’eco e ai richiami
e ‘l Sole pallido allor tramontò.

V’eran presagi di pena e di Morte,
i bei moschetti sparavano ai cervi.
Questi innocenti contrassero i nervi,
del can il dente nel cor li squarciò.

Frattanto i servi strappavan le pelli
dalle carcasse dappresso i fucil;
ed i cerbiatti fuggivano snelli,
e ‘l fiero cane tornava al canil.

Sonava ‘l corno dal ventre dell’Ecate,
ed i suoi gridi facevansi cupi,
e nell’oscuro tra’i frassini i lupi
la fioca Luna dal sonno destò.

V’eran le tedi che a poco s’alzavano
a illuminare la Notte invernale,
e tra l’oscuro una larva infernale
d’un reo sicario l’acciaro affilò.

Pegli orizzonti gridavano i corni,
parve che tristi dicessero: «Muoja!».
D’aspri sepolcri sen stavano adorni,
e nascondevano l’ombra del boja.

Hans cavalcava tranquillo e contento,
quando de’ ceffi funesti gli dissero:
«Ite all’Inferno!»... e poscia ‘l trafissero
col gran pugnale che s’insanguinò.

V’eran de’ servi che tosto pensarono
che l’opra fosse d’un’aspra masnada,
un tra costoro raccolse una spada
ed al castello veloce tornò.

Era pallente, gridava e sudava,
ed esclamava: «Vi son de’ banditi!».
Ma ‘l sommo rege d’un tratto incontrava,
e questi dissegli: «Sono fuggiti!».

Allor si seppe che ‘l prode Svedese
presso la caccia da ignoti fu ucciso,
e la regina pallente in sul viso
l’intera Notte a piagner passò»...

Ed Antonietta narrando tremava,
ed ai figliuoli la fiaba piaceva,
ed ella in core soffrente gemeva
e mesta e pallida allor starnutì.

«Mamma, continua!» tossendo le disse
il primogenito: «Dicci che avvenne!»,
e la regina lo strazio trattenne,
e continuava dicendo così.

«V’era nel rege un profondo silenzio,
ei alla sposa non dava un conforto,
e quei di Svezia purtroppo era morto,
e la fanciulla mai più confortò.

Ella impazziva, e restava infantile,
e le giornate passava ai giardin.
Quivi parlava di moda al gentile
soffio del vento che urlava meschin.

Gli anni passarono, ed una duchessa
alle fontane un giorno incontrava.
Quest’era bella ed a lei s’inchinava
e poscia un attimo si presentò.

V’era bellezza, dolcissimo fascino
in quest’incognita donna regale.
Fuggìa da un uomo crudele e brutale
che per iscandoli la ripudiò.

Or era povera, sola e sprezzata
ed al palagio bramava campar.
La fama fecela diseredata,
e non sapeva che dire e che far.

Lo sposo odiava sicché ‘l maledisse,
stava irrequieta in su’ crudi pensieri,
ed or i Cieli parevan forieri
di quella Pace che ormai la lasciò.

V’era una misera mesta ed affranta
presso la somma regina soffrente.
Era ‘l suo guardo maliardo e lucente,
il suo bel labbro tremando parlò.

Alla regina narrava ‘l suo Fato,
e poi le disse: «Mi chiamo Gabrielle»,
e le profferse dell’empio suo amato,
giurò seguirla in vita e in avel.

Furono amiche. Passarono i mesi.
L’austra fanciulla le diede de’ doni.
Ma in pieno luglio gli svizzeri sproni
l’irato popolo bruto annientò.

V’eran progetti di subita fuga,
e la duchessa coll’oro fuggiva
ed anco ricca n’andava giuliva,
e la sua amica mai più rimembrò.

Vil traditrice! L’infame dissolse,
e la regina soletta lasciò,
lasciò la donna alla qual si rivolse.
Eppur quest’ultima la perdonò.

Frattanto ‘l popolo bruto infuriava,
e ‘l sommo rege dal trono sospese,
ed un Demòne la Patria si prese,
e ‘l clero e i nobili pur condannò».

Frattanto i bimbi prendevano sonno,
ed Antonietta gemente si tacque,
e d’in su’i tetti s’udivano l’acque
della tempesta ch’ancora infierì;

e tra sospiri di molle innocenza,
e tra la tosse, e tra’i tanti sbadigli
s’addormentarono tutt’e due i figli,
ma del Delfino la bocca tossì...

e la lor madre guardavali muta,
li contemplava, baciòlli alle guance,
e poscia udiva le rigide lance
de’i cavalieri che fuori trottâr,

e inquieta e fragile, con lieve voce,
con guardo assente nel nulla del Tempio,
stanca membrandosi l’ultimo scempio
la trista fiaba andò ad ultimar.

«V’eran de’ giudici fieri ed iniqui
che la fanciulla privâr del marito.
Questi evadeva. Ma tosto ‘l fuggito
l’infame guardia per fato fermò.

Dappresso ‘l verno gli dieder la Morte,
d’in sul patibolo cadeva ‘l re.
Molti gridavano contra la corte:
«Vostri siam vindici, Jacques de Molay»;

e la regina fu chiusa in sul carcere,
ed i suoi figli fûr dati al squallore.
L’arciduchessa - impazzita d’Amore -
vile tiranna l’istranio chiamò.

Sognando ‘l musico, sposo in su’i nuvoli,
passava l’ore tra ‘l pianto e ‘l tormento,
ed ascoltata soltanto dal vento,
una preghiera in sul Cielo gridò.

Prendea un ritratto dell’uomo che amò,
lo strinse al core che poi l’invocò,
e lamentando l’infame Destin,
disse soffrendo: «Ich war Königin!»;

ed aspettava l’estremo supplizio,
la morte iniqua del figlio malato,
di ricongiungersi al musico amato
colma d’affanni l’istante aspettò».

Detta la fiaba la donna s’alzava,
teneva in braccio i figli dormienti,
e camminando con passi sì lenti
in sul pio letto posavali ancor,

e si toglieva le calze da’i piedi,
e con costoro gemente si stese,
con un abbraccio entrambi li prese
e li cullava in sul far del sopor.
La Ballata della Regina
Poesia in esclusiva
Massimiliano Zaino 20/07/2013 13:12| 1807

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.


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Nota dell'autore:
«Versione romanzata e leggendaria degli Amori di Maria Antonietta d'Asburgo (allusioni a Mozart, von Fersen, Pollastron de Polignac). Ballata tratta da un mio Poema.»

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