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| Eran le nove d’un gelido vespero.
Il ciel d’estate anneravasi e lento
e fresco e folle lagnavasi ‘l vento,
e l’orizzonte allor s’annerì;
ed i vicini e torbidi nuvoli
gli aspri vapori nel ciel condensavano
e fiochi tòni a volte gridavano
e l’afa estiva veloce svanì,
e in sulla Notte che lenta arrivava,
tra’l serotino rossore del cielo
e tra l’oscuro de’ nugoli velo
più d’una folgore si lampeggiò...
E l’aër parve ch’andasse di ghiaccio,
ed i suoi atòmi sembravan calotte,
ed aure inquiete sorgevano a frotte,
e più d’un attimo un nembo tonò,
ed ogni nube giaceva sì carca
di piogge e grandine che tenebrosa
parea, e gridava muggente e furiosa
e l’acque infauste n’andava a versar,
e tergea gelida tutta Parigi,
le piazze e i viali, e l’irte campagne,
ed era un pugno scrosciante di lagne
e l’alta Senna volava ad alzar.
Baldi e al riparo in sotto alle tettoje
stavan tra’i dadi, e i giuochi e i tamburi
gli aspri gendarmi che presso de’ muri
si bivaccavano presi in delir,
ed osservavano i tersi passanti,
le dame fradice, e i carri inondati,
ed i vestiti strizzanti e bagnati
delle fanciulle; e in preda a desir
crudi ischerzavano bevendo ‘l vino,
brindavan lieti, e gli orli de’ nappi
si straripavano in su’i bei tappi
che maschie mani da’ vetri strappâr.
Molte le ronde giravan tra’ effluvi,
negri speroni battevan le pozze
e le lor vesti - che stavano sozze
di polve ardente -, allor si lavâr,
e gli uffiziali tiravano ‘l cane
delle pistole che giaceano asciutte,
al ciel spararono e l’arme e tutte -
benché bagnate - sapevan colpir.
Frattanto ‘l cielo pareva un graffito:
grigio di grandine, e oscuro di Notte,
e ner di lividi, e nero di botte
mugghiava cupo; e vêr l’avvenir
della tempesta e i soffi e le raffiche
librò del vento e d’in sulle strade
alzava i ciottoli, e i fieni e le biade
e i tronchi petali de’i smorti fior...
Tra’i bei palagi, in su’i solchi de’ viali,
spesso passavano de’ carrettieri,
de’ contadini e de’i cavalieri,
ed eran fradici e senza tepor,
e sen tornavano vêr le campagne,
molti co’i carri ricolmi di grano,
altri a cavallo con nerbo alla mano,
alcuni a piedi tirandosi i buoi,
e s’intridevano d’acque sì gelide,
e in sotto ai tòni le bestie tremavano,
ed i destrieri allor si fermavano,
e i lor padroni sferzavanli; e poi
le truci folgori e triste gridarono,
e i nembi oscuri sembravano in guerra:
colà un cannone scagliava alla terra,
sparava ardito l’intèr battaglion,
e le piovane e freddissime piogge
facean de’ scrosci di spade e di duelli,
e i tòn sonavano gl’inni più belli,
somme e guerresche e fischianti canzon.
Or quelle ronde che infami passavano
vollero accendere l’alte lanterne,
e se n’andavano triste ed alterne
gli ascosi vicoli tosto a scrutar,
e allor udivano l’urla ed i chiassi
e i giuochi e brindisi dalle locande,
e spesso ‘l murmure era sì grande
che i lor speroni parea soffocar...
ed osservavano dalle finestre
delle taverne le sale, e ‘l nefando
giuoco d’azzardo, e ‘l calice blando
pien di venefici ed empi liquor:
gli osti giravano, riempivano i nappi,
al foco stava la giovine ostessa,
e in sulle braci sen stava ben lessa
dell’alba carne dappresso l’ardor,
e in su’i gran tavoli stavan de’ ceffi
bruti e affamati... e rudi e volgari,
altri gettavano un mar di danari
alle sgualdrine discinte in sul sen,
e si beveva, mangiavano in molti,
e si cantavano brute canzoni,
e si giuocava tra un stuol di bëòni,
ed i liquori parevan velen.
Frattanto ai turbini sen stavan crudi
i granatieri dappresso la piazza
ove la nobile gemeva razza
stretta nel cor dell’empie Tuileries,
laddove un giorno la furia del popolo
coll’arme in mano volava all’assalto,
era un agosto, e cadde lo spalto,
e de’ Capeti la stirpe finì.
Chiuse restavano l’orride porte,
gli aurei cancelli sen stavan sprangati,
e i finestrelli dagli orli dorati
erano e stretti... e più non s’aprîr;
ed i manipoli attenti movevansi
sotto le piogge coll’arme alle spalle,
e i cavalieri portavano in stalle
i palafreni che tanto nitrîr...
ed i gendarmi n’andavano avanti,
e poscia indietro, e molti fischiavano,
ed altri ancora contenti parlavano
di frivolezze, e ridevano allor,
e divertivansi a batter i ciottoli
cogli speroni molesti all’udito,
e così andavano all’infinito,
senza contegno... e senza sopor.
Stretta in squallore, in sul Tempio del spalto,
mesta giaceva la giovin regina,
e parea vecchia, non più la bambina
che non sapendo le genti insultò,
ed era insonne, e bianca e impaurita,
sedea su un ceppo d’oscuro castagno,
e la cingevano trame di ragno...
Ahi quante pene costei sopportò!
D’alta statura di sangue germanico,
il crin castano mostrava invecchiato,
lì delle ciocche di biondo malato,
là de’i capelli di grigio malor,
e l’auree gemme e le trecce e i bei riccioli
più non sen stavano sulla sua chioma,
quest’era infatti lisciata e l’aroma
più non donava di spezie e d’odor,
e in sulla fronte giacevan le grinze
d’un duol eterno, di lungo timore,
ed il suo ciglio grondava dolore,
era rigonfio d’un pianto ferin;
ed il suo volto mostravasi secco,
e l’albe guance tremavano scarne,
e la vecchiezza involavasi a sfarne
l’antico fascino sì femminin...
e ‘l labbro tremulo e inquieto movevasi,
ed all’orecchie non stavan più perle,
ed in sul collo l’impronte di sberle -
e al lieve mento - piangevan crudel...
e le sue vesti di mussola povera
eran discinte... e prive di sfarzo,
e le indossava fors’anche da marzo
e le tergeva coll’acque del ciel.
Le man tremavano, mostravan lividi
d’empie percosse antiche e vicine;
ed era donna in sul far della fine,
e fu regina di Francia e beltà...
e or non chiedeva né lusso né gemme,
e non voleva nessuna modista,
nessun lettore, né scrisse una lista,
sol implorava la santa pietà,
e piangea tanto con aspri rimorsi
e co’i singhiozzi ed in sul suo diadema,
e rispondevale sol l’anatèma
del popol bruto che la imprigionò...
Ed ai suoi piedi, riposte in disordine,
giacean le veglie parrucche sontuose,
ed eran sozze, fors’anche corrose,
e poche volte ancor le indossò.
Giacea all’oscuro, e mentre di fuori
v’erano i fulmini della tempesta,
una candela soltanto e molesta
l’ombre del Tempio a stenti colpì,
e presso un andito stavan tre donne,
misere serve, e cucivano a stento
ché non vedevano se non il vento
che la finestra più volte ferì;
e i tòn battevano l’ore funeste
qual fossêr pendoli vani e illusori,
e da una brace salivan gli odori -
da un pio tegame - d’un squallido tè...
e vêr un letto giacevan de’ cesti
pien di lenzuoli e d’altri vestiti,
e in sulla culla, ahimè, malnutriti
stavano i bimbi dell’ultimo re.
Or una serva s’alzava d’un colpo
e al caminetto volgevasi ligia,
ma la regina invecchiata e sì grigia
s’alzò e profferse: «Quietatevi, ‘l vò!»,
e la domestica lieta ubbidivale,
ed Antonietta n’andava al tegame,
prese una tazza di negro legname
e la bevanda allor vi versò;
ed andò poscia al letto de’i figli,
li guardò mesta e chiedeva ‘l perdono -
non li lasciava giammai in abbandono -
ed il Delfino destò dal sopor.
Questi era un bimbo di più di sett’anni,
e da due mesi giaceva in malore,
e possedeva soltanto l’Amore
dell’alta madre... soltanto ‘l suo cor,
ed ogni istante, e di giorno e di notte,
febbricitante sudava e tossiva,
ed il suo farmaco fu la corriva
possa dell’erbe raccolte dal suol,
e Robespierre fingeva d’ignorarlo,
anzi diceva che fu avvelenato
dalla regina istessa e dannato
ad una morte ricolma di duol.
Eppur fûr l’acque grondanti da’i tetti
e lo squallore l’inique cagioni
del suo malanno, e l’empie ragioni
di lui che i farmaci sempre negò;
ed or la madre del tè gli imboccava
ed ei sorrise... fu un fior d’innocenza
ed era vittima d’una Sapienza
che ormai dovunque in Francia infuriò...
e mentre in spasimi bevea l’infuso,
tossìa gemendo e sudante alla fronte,
e questo bimbo purtroppo mill’onte
privo di colpe da furie subì...
e la regina, reggendogli ‘l nappo,
l’accarezzava tra l’orride Erinni,
e tra le folgori sentiva gl’inni
d’un Ciel pietoso che dolce s’aprì.
Pur l’altro pargolo ansio svegliavasi,
ed ei posava lo sguardo al fratello,
ed a lui dava ‘l lenzuolo e ‘l mantello
che lo coprivan dall’ugola ai piè,
e poscia ‘l viso volgeva alla madre,
e disse: «Mamma! Ho tanta paüra!»,
ed Antonietta con dolce premura
d’un caldo abbraccio lo strinse e gli diè
un bacio in fronte, e gli disse: «Sta’ calmo!»,
ed abbracciandolo, piangea cotanto
che ‘l bimbo chiesele con detto affranto:
«Mamma, tu piangi?»; ed ella ‘l baciò,
ed il fratello tossendo avvinghiava
le braccia al collo... al guardo materno,
e fuor il nembo un gelo da inverno
colla tempesta ancor propagò.
«Sì, piango... io lagrimo!» sclamò la donna,
ed i suoi figli la strinsero al core,
e s’aggirava un perpetuo dolore,
e pur le serve volean lagrimar.
«Mamma, ‘sta sera non riesco a dormire.
Il tòn m’opprime» le disse ‘l più sano,
e ‘l primogenito con destra mano
la miser madre sen stava a sfiorar;
ed ei temeva dell’ombre funeste
il ner rigore, credeva ai fantasmi,
e tra le pene, la tosse e gli spasmi
temea lo spettro del spento papà...
e la regina prendevali in braccio,
e si sedeva su un seggio di legno,
dietro alla nuca - sul mur - stava un segno
d’un ciel stellato dipinto a metà,
e la candela flettea la mobilia
la cui gran ombra pingeva un serpente:
il dente andava crudele e possente
a ispaventare que’ mesti figliuol,
ed era un drago, una bestia infernale,
crudo e beffardo pareva ‘l suo ghigno,
e poi lagnavasi formido e arcigno,
negro di Notte in sul far del suo vol.
«Mamma! Ho paüra!» sclamava vedendolo
il più piccino che udiva la pioggia;
e dal soffitto cadeva una roggia
d’acque sì gelide sopra costor...
ed ei le chiese in viso guardandola:
«Mamma, un favor: raccontaci una favola!»,
ed Antonietta qual vecchia bisavola
lor raccontava un’istoria d’Amor. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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«Composizione tratta e decontestualizzata da un mio Poema sulla Rivoluzione Francese.» |
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