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A mezzanotte sibila
la Luna, e ‘l ciel s’affanna,
l’empie civette assalgono
i vel color di panna
dell’orbe nubi, e spiccano
dagli alti rami ‘l vol;
e gli astri stanno ceruli
sovra le querce in sonno,
biancheggian d’oro e platino,
e dolci e inquieti ponno
di fioca tede accendere
l’empìro oscuro e ‘l suol.
Un campanil si brontola,
ondeggia ‘l bronzo insonne,
è un truce e tetro battito
che va a destar le donne,
e sona in fin a dodici
pell’etra e i freddi umor;
la raganella gracida,
da un rivo esausta sale,
piangono i grilli e sentonsi
cantar le pie cicale,
e i pipistrelli volano
in preda a un reo furor.
D’in su un solingo platano
un gufo uccide un topo,
gli squarta fuor le viscere,
le gusta altèr, e dopo
al ramoscel che crepita
riede, e non vola più;
ma d’un bisbiglio accorgesi
che corre e triste e muto,
scorge brillar la camera
d’un fior di donna, e ‘l fiuto
gli afferma pian, pianissimo
che qualcheduno fu.
È morto un stral di femmina,
sul letto un corpo giace,
veste di cenci, e i poveri
labbri son senza pace...
e ‘l freddo mento gocciola
il fiel d’un reo velen;
le braccia stanno rigide
a penzolon dal covo,
contratti sono i pollici
punti da spil di rovo,
e son pallenti i gomiti,
le gambe, i piedi e ‘l sen.
La man mancina un calice
riverso al suolo stringe,
odora d’aspre mandorle,
il bianco polso intinge
e cola in sulle seriche
calze che a terra stan;
sul pavimento giacciono
corpetti e gonne e seta,
muore una rosa candida
tersa di sangue e inquieta,
e presso un speglio sudicio
brocche vi sono insan.
Da un’egra porta giungono
due servi, oh Sorte amara!
Senza ghirlande portano
a stenti un’empia bara
e muti la trascinano
in fin del letto al piè;
e non vi son de’ parroci,
gl’incensi e l’acquasanta,
non s’ode più una supplica,
tutto di ner s’ammanta,
le pie candel non brillano,
non scorgesi la Fè...
E i due becchin sollevano
la dama pelle ascelle,
i cenci allor si sciolgono
al marmo della pelle,
i sen funerei mostransi,
orbi di spene e spir;
e la fanciulla al fèretro
scagliata vien con sdegno,
senza un sudario... al formido
ragno del duro legno,
senza una croce angelica
sull’ultimo dormir...
e poscia i servi afferrano
la bara orbata ai Santi,
senza rumor la portano
lontana e senza canti,
pel ciel notturno vagano
nascosti, Iddio lo sa,
e son costor degli uomini
che parlano d’onore,
sporca sgualdrina chiamano
lei che penò d’Amore,
ed a un comun sarcofago
costei riposerà.
Fu una madama, e nobile
vivea tra’l bene e ‘l lusso,
benché in virtù, sedussela
un reo e perverso flusso
d’insano Amor terribile,
al sen d’un seduttor;
e ‘l baldo e bruto giovine
l’abbandonò in miseria,
l’oro e ‘l danar sottrassele
e le ferì l’arteria
del cor deluso e debile,
sogno d’infausto Amor.
Allor costei l’elleboro
bevve dal labbro stanco,
in sui cuscin dolevasi,
gridava ‘l mesto fianco,
e tra’ i martìr orribili,
e in sul dolor spirò;
ed or sta morta e ‘l fèretro
l’adduce a un’orba fossa,
tra querce e piante indocili
le son di ghiaccio l’ossa...
commòve i ciel, e i nuvoli
ma l’uom placar non può.
Il volto è mesto e pallido,
in sulla destra è chino,
l’immoto labbro vomita
il fiel d’un aspro vino,
e dalle nari sanguina
piogge d’un cruor crudel;
e le pupil si posano
tra’l bianco e ‘l bel azzurro,
i biondi crin nascondono
il sen color di burro,
e allor perfin la nottola
piagne su lei dal ciel...
Le pulsa ‘l ventre esanime,
il cor d’un feto gela,
spenta la madre in spasimi,
quel bimbo muor, s’inciela...
e i suoi umor disciolgonsi
nel Nulla d’empio duol.
Giunta la bara al loculo
disperso in sulle selve,
sepolta vien la femmina
tra gli ossi d’altri e belve,
i ciel quai lupi ululano...
e la divora ‘l suol. |
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