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Tetra la Notte è lugubre
pelle scoscese rupi,
splende la Luna ed ansima
in sul ringhiar de’i lupi,
e dalle stelle illumina
le valli e i pii ruscel;
ed i profluvi e i gelidi
venti sen vanno svelti,
e le radure gemono
sotto ‘l cantar de’i Celti,
e l’empie brume invadono
lente perfino ‘l ciel.
In solitario culmine,
sotto le nubi altere,
e tra le querce e i frassini
pinti di tetre cere,
ritta sen sta ed immobile
una fanciulla; ed è
e bella e fresca e giovine
sìccome un fior che sboccia,
lunghi ha i capelli e morbidi
e biondi qual la goccia
d’una dorata sidera
che piange al suo bel piè;
e lisci e ingenui scendono
fin a coprirle ‘l collo
come un giojel che serico
cola dall’igneo ammollo...
e di costei è l’estatico
ciglio fulgor di blu.
In sulla destra tollera
la sacra e aguzza picca,
giace ai suoi piedi un torbido
elmo che al nembo spicca,
ed ella ammira estatica
la Notte e ‘l Sol che fu;
e le sue gote in porpora
di sangue estratto a morsi
e di segreti spasimi
bevuti ad empi sorsi,
pudìche son, la rendono
dolce e più bella ognor,
ed il suo labbro nobile
si tinge d’alti unguenti,
e la sua fronte sanguina
l’acque de’i ciel furenti,
ed il suo volto fulgido
profuma d’ogni fior.
La bionda chioma e soffice
l’orecchie pur le cela...
orecchie dolci agli attimi
d’una guerresca vela,
e ai caldi baci incogniti
d’un’alma che li dà;
ed ella indossa un abito
di bianca e fine seta,
è desso un peplo e s’agita
lungo l’auretta inquieta...
e mentre oscilla, l’animo
a stuzzicarle va.
Corre e sen va e solletica
il suo pio ventre e ‘l seno,
dove tra’i fianchi eroïci
splende l’usbergo al Reno,
ed il suo bel capezzolo
allatta un’ombra al cor;
e allor l’acciaro e ‘l funebre
corno che squilla ai prodi,
di rosso sangue intingonsi
freddi e crudeli e sodi...
e questo umore colasi
all’epa dove muor.
Sotto quest’arme indocili
si mòve l’ansio addome,
sembra seguir i palpiti
del cor, sospira come
un fresco soffio e tremulo
d’un affannoso ciel;
e l’epa molle e candida
indietro va ed avanti,
ed è affannata in lagrime
degne de’i soli amanti...
avanti e indietro ogn’attimo
presso l’orror d’avel.
Tra ‘l peplo e ‘l casto inguine
i ferri suoi han fine,
coperte stan le pallide
gambe su un mar di spine,
e scalzi i piedi premono
il nero e fresco suol;
ed elle geme e lagnasi
in guardi accesi e puri,
e piange ‘l ciglio vergine
sotto i gran nembi oscuri,
e ‘l labbro e dolce, angelico
par tremolar pel duol.
In sul bell’occhio l’iride
si riempie d’egro pianto,
è trattenuto e rorido
e dolce, e duro e santo;
e la pupilla riempiesi
finché non ne può più;
e allor quai fiumi scendono
le stille amare al mento,
si tergon l’albe palpebre
dell’acque e di sgomento ...
e ‘l labbro mesto e tremulo
piange un Amor che fu;
e come un rosso petalo
in sulla ria rugiada,
di gocce meste e lagrime
si bagnan guance e spada,
e i corni orrendi emanano
canti d’orror feral...
e l’eco atroce e barbara
ripete questi detti,
infuria ovunque e fulgida
abbraccia i cieli inetti,
e dice ai freddi nuvoli
che ormai già fu ‘l mortal.
Ahi! La Valchiria esanime
si strugge in cruda pena,
scaglia la lancia orribile
d’un pioppo in sulla vena,
e colle mani copresi
il volto ch’è un ruscel;
ed or la Notte estinguesi,
da’i nembi ‘l Sole aggiorna,
l’orride forme muojono
ma grida un’aspra Norna;
e per la donna misera
nemmen v’è pace in Ciel. |
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