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Tra’i negri campi e i platani
un’ombra regna infausta,
è un veglio e antico rudere
d’una cascina esausta;
e la sua pietra è livida
come di Notte ‘l cruor.
Immersa giace e scalpita
lungo un arcano ignoto,
spira in un mar di polvere
nefasta come un loto;
ed il suo muro è tenebra...
s’agita, grida e muor.
I debil tetti cadono,
crescono i smorti muschi,
a terra stan le tegole
presso gli sterpi; e i bruschi
fulvi mattoni l’edera
cruda vuol far soffrir.
Urlano i pozzi e ‘l torrido
fango che in essi imbianca,
grida ‘l granajo esanime
mentre vien meno e manca;
ed una rea caligine
le pietre va a coprir.
Le ville son di cenere
che còce al Sole albino,
s’alza l’odor de’i grappoli
d’un acetoso vino;
e sulle ripe in fregola
geme una volpe al ciel.
Dormon la strige e ‘l cuculo
presso un’antica sala,
di vermi è pien la tavola
d’un gufo che s’ammala;
ed essi infausti sputano
a terra un negro fiel.
Le lepri son cadaveri
che’l tempo ancor consuma,
le bave, ‘l sangue e i bozzoli
son stretti in una spuma;
e come un rivo lavico
le fa di rocce ‘l Sol.
Marcio è ‘l portone e umido,
il legno è veglio e bruto,
corre a morir lo stipite
corroso da uno sputo;
e gl’antri erosi effondono
solo spavento e duol.
Ignude son le camere,
cede ‘l legger soffitto,
il pavimento è tremulo
e piange stando zitto;
e un fosco vento e lugubre
soffia... e d’onte è forrier.
Geme la trista rovere
che un sepolcro asconde,
s’alzan la croce e un brivido
che ‘l duol, l’orrore infonde;
e in sulla terrea lapide
vaga uno spettro fier.
Quando vien Notte un misero
s’alza dall’osseo avello,
erra ululando e spasima
e mesto va a un cancello;
ed è uno spirto pallido
che requie più non ha.
Pe’i campi arati gracida
sotto le stelle oscure,
vaga errabondo e palpita
col labbro suo; e l’impure
forme del teschio ignobile
gridano al Ciel pietà.
Geme da un ramo l’upupa
che i campi ignudi irriga,
cresce qual croce incognita
dal seme un’aspra spiga;
ed il fantasma in collera
le querce va a ferir.
Brucia gli sterpi prosperi
che piangon mesti e ciechi,
volge le smorte pàlpebre
allo svanir degl’echi;
e le sue labbra perfide
l’avello fan patir.
Quando vien Notte s’agita
questa cascina orrenda,
s’alza uno spettro e libero
corre di bianca benda;
e quest’orror fantasima
stringe ‘l suo duol nel cor.
Va pelle rie pozzanghere,
pe’i fanghi osceni e bruti,
va pelle meste tegole
degli abitur diruti;
e quando riede l’iride
del primo Sole muor. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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