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Se la tua anima t'ingombra
e alla gola il pianto ti disgusta,
se l'incertezza a sé t'adombra
e la tua veste diviene frusta,
se sotto il sole ti senti all'ombra
e la vita ti sembra ingiusta,
guarda allo specchio il tuo viso
e ci vedrai l'antro del paradiso.
Se ti viene di spaccare tutto
perché ti senti una fallita,
se ad ogni tuo sogno distrutto
si prostra la serenità avvilita
e il tuo pozzo è ormai asciutto,
quando sei impaurita e sfinita,
guardati allo specchio riflessa,
vedrai la mia anima dismessa.
E non perdere mai occasione
di chiedere sempre il mio aiuto,
perché questa è la mia funzione,
dar parola a ciò che hai taciuto,
estrarre la verità in ogni finzione,
cancellare i dolori che hai vissuto
e guardarti lontanamente felice
mentre risorgi come una fenice.
Io sento di amarti come nessuno,
e anche se dal Nullo sono amato,
sento lo spirto del vigore di ognuno
come se mi fosse stato donato
come se nei mari fossi Nettuno,
padrone assoluto del mio fato;
io vedo la luce dove è tutto oscuro
e davanti a me, più nessun muro!
Eppure quando il tuo arco di cupido
si curva verso l'alto e sotto il rosso
il candore bagna gli argini del lido,
i gravi di ognuno mi ritrovo addosso,
scacciato dal caloroso efimero nido
e la terra aperta diviene un fosso,
ogni sguardo si perde in un sospiro
che la serenità è al braccio del ghiro.
E così innanzi allo specchio riflesso
i tuoi occhi riflessi sono la mia paura,
il mio spirto pavido ritorna dismesso,
ogni lacrima è una palude e la tura
diventa inutile ponte senza più nesso;
in quell'istante sotto il velo della morte,
mi desto e mi rimetto alla mia sorte.
Allora la rabbia mi fa strada nella colpa,
lo sdegno per me stesso dell'impotenza
si ciba di quel seme che non ha polpa,
senza sapore, ché la sconfitta perdenza
addurrebbe l'ignominia a sua discolpa
pur di non cullarsi alla sua indifferenza;
Oh XXXXXX (nome omesso), se tu portassi le mie pene,
il mio sangue fluirebbe nelle tue vene.
La tua voce mi assilla ogni mattina,
è sale sulla ferita che non si chiude,
è neve sul cuore che emana calore;
ma come un osso sotto sforzo s'incrina
e la ferita quando è guarita prude,
la pelle piano riprende il suo colore
ed anche se lacera e contusa
nessun dolore ormai accusa.
Forse la soluzione, oh fanciulla molesta
è la tua dipartita, la fine di ogni dolore
come del Manzoni la provida tempesta,
lascia colorare l'ombra che il bagliore
lumina quando la giornata s'è desta,
ridarebbe al grigio morto il suo colore,
accendendo una vampa di speranza,
sotto il sole d'estate la mia baldanza.
Ma se i tuoi occhi lacrimassero un pianto
il soffio del tuo nome fugando i granelli
spargerebbe nel sotteso di sale il manto,
come lo scuoiatore tolte dalle carni le pelli
lascia ignude le membra d'ogni espianto:
già so che ti guarderei così tanto disperato
che la colpa m'avrebbe da tempo rinnegato.
Ah, potessi fare qualcosa!
forse dovrei sparire in ogni luogo
gettar nei mari dove riposa
l'ultimo gesto di ogni inutile sfogo,
stupidi versi e futile prosa,
così almeno la corda al tuo giogo
che mi tiene da che t'ho conosciuta
mi lascerebbe respirar quando sparuta. |
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