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Presso la via sì adombrata dai fori
che sozzi di sangue cadenti stanno
siccome putano de' desti odori
di quel trangugiato vino ch'è danno,
tra uno stuolo di patrizi sgozzati
e di puerili vergini spogliate
ecco marciare i vandali dannati
colle auguste opulenze derubate.
Alarico, duce empio e traditore,
dal suo cesarèo carro forte grida
che tosto venga gettato in squallore
l'impero d'una semenza sì infida
che fè di Roma un crudo lupanare
donde danaro, e diletto e nequizia
repente salirö alle regge amare
dove ai regi rei insegnarono i vizia.
Mira, senato immorale e corrotto,
le folte orde de' barbari temuti
che ti trucidano e lo spirto, e il motto,
e i gloriosi simboli ben pasciuti!...
Guarda, sprezzato popolo romano,
le brute pellicce degl'istranieri
che corrono contra il resister vano
delle corazze de' tuoi tempi fieri!...
Osservate, attoniti e inermi duci,
l'insegne aspre de' lupi e de' cinghiali
seguir tra focose e dolenti luci
l'amata aquila ch'ha perduto l'ali!...
Tremante e mesto il vicario di Cristo
pur s'asconde tra i sepolcri degli avi;
e mentre pelle vie regna Mefisto
scaltro del trono si serba le chiavi.
Denudata e oltraggiata con empietà
or soccombe la vergine di Vesta
che spirando impura il foco cader fa
all'ombra truce dell'orda funesta.
Ma fellone dianzi all'imperatore
e ai securi e portenti pretoriani,
Alarico arretra con disonore
e coi suoi fugge su lochi lontani
concedendo a Roma un'ultima speme
e un'indefinita tregua all'impero.
Frattanto dicesi che l'Urbe teme
la morte... il detestato istante altero.
Eppure prosegue la decadenza
del suo popolo che s'ammutolisce
o dianzi la cristiana e pia possenza,
o dianzi al vizio che ovunque ferisce.
Valenti centurioni, in nome d'Iddio,
al laico gladio aguzzo rinunziano
e imitando de' preti l'accento pio,
verba di pace ligi pronunziano.
La corte, intanto, tra la corruzione
e l'incapacità di governare,
di cortigiane gode la passione
in un impeto che sempre è da odiare.
Il senato offre favori col sesso,
e col sangue delle vergini dame
ascostamente il popolo fia oppresso
sotto l'ombra di misteriche lame
che, col tacito accordo del gran serto,
uccidon, derubano i dissidenti
pur loquando falsamente di merto
e di sì benefici cangiamenti
che nella miseria i miseri gettan,
e i derubati dai baldi germani
con truce indifferenza dimentican
giacché non tutti gli uomin son sovrani.
Ecco allor giunger dalla steppa altera
l'orda d'Attila, crudele flagello.
Con eroica portanza tanto fiera,
l'Unno alla morte già apporta il suggello.
Ecco l'impero mondato col foco,
cogli alti urli degli innocenti uccisi
da un barbaro che sa uccider per giuoco...
da un tiranno che i regni fia derisi.
Gloria ai gallici campi di tenzone!
Gloria all'ultima vittoria romana!...
Hosanna! Si canti pel santo Leone
che Roma salvò per fede cristiana!...
Ma il Tebro a morte certa sta dannato
ché più niuno sa essere virtuoso
in un loco spento, corrotto e viziato...
in un mondo cotanto voluttuoso.
Oh Roma... dolce imago sempiterna
che sapesti imporre alla rea natura
l'immenso e pio lume d'una lucerna
foriera di civiltà e di cultura...
Oh Urbe, aquila dorata, ignea e forte
che plasmasti un mondo impuro e selvaggio,
ora corrotta corri alla tua sorte,
senza onore, senza antico coraggio!...
Sta il puerile Romolo presso'l trono
circondato da matrone faconde,
allorché d'un certame odesi il sono
volar pell'aure tenebrose e immonde.
Ecco entrare nella sala imperiale
il duce Odoacre che mostra la lama
al gran seggio millenario e ancestrale,
al giovin rege, a ogni impaurita dama.
Allora Romolo s'alza e s'inchina
dianzi ai novelli signori del Tebro.
La romana gente sempre meschina
così impara la vita d'un core ebro.
Addio, oh Cesare, sostituisce l'ave!...
Addio, oh Roma, terra di genti schiave
che non vedranno mai più la Libertà
per tua colpa, per tua insistita viltà! |
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