Francesco aveva combattuto in Spagna sostenendo le tesi fasciste, poi era partito per un non meglio identificato paese africano “dove gli uomini avevano la pelle nera come la pece e le donne erano sempre nude”.
Quando raccontava le storie legate alla sua permanenza in Somalia, i suoi occhi bianchi brillano di una luce sinistra. Una volta, gli chiesi come mai avesse le pupille bianche, mi guardò con cattiveria e mi disse che non erano bianchi ma trasparenti. Da quel giorno, evitai categoricamente d’affrontare l’argomento. Il mio ruolo consisteva essenzialmente nell’ascoltarlo in silenzio, d’annuire quando parlava di azioni belliche e, quando parlava di donne, ero quasi costretto a rimanere immobile. Non dovevo in nessun modo interromperlo perché ricominciava daccapo, in una tiritera monotona e ripetitiva: raccontava lo stesso fatto, usando le stesse parole.
Mi ricordo che una volta, smise di parlare per cinque minuti perché passava un funerale. Poi si alzò con fatica dalla sedia di paglia, che si portava sempre appresso, trascinandola rumorosamente sull’acciottolato, si tolse il cappello che teneva perennemente sulla testa e si fece il segno della croce.
“L’ho sempre fatta vivere nell’ordine e nella pulizia!”, mi disse indicandomi la giovane moglie affacciata al balcone.
Aspettò che fosse passato il corteo funebre, poi si sedette lentamente sulla seggiola, inghiottì con difficoltà la saliva e, dopo essersi acceso una nazionale senza filtro, mi guardò dritto negli occhi.
“Me lo faresti un piacere? ”
Lo guardai senza capire il significato della sua domanda. Pensavo avessi fatto o semplicemente pensato qualcosa che gli avesse dato fastidio.
“Dimmi, Francesco”, risposi tra i denti.
“Sei già passato al camposanto?”
Continuò a parlare senza neanche aspettare la mia risposta.
“Ho predisposto tutto per quando non ci sarò più. Sulla tomba ho fatto già mettere la mia fotografia, la mia data di nascita, un piccolo crocefisso che ho comprato a C******…”
Lo guardavo senza capire.
“Manca solo la data di morte. Tu che sei un ragazzo che ha studiato, devi soltanto verificare che lei faccia aggiungere il giorno della mia dipartita…”
Sorrise malignamente, sotto i baffi perché era riuscito a trovare la parola giusta.
Ero a disagio perché non avevo ben capito in che cosa consistesse esattamente il mio ruolo nel caso in cui sua moglie non avesse esaudito il suo ultimo desiderio.
Mi guardò con i suoi occhi bianchi e tornò a raccontarmi l’ennesima storia di guerra.
Lo guardai in silenzio: le sue labbra si muovevano ritmicamente, come se qualcuno gli suggerisse le parole da pronunciare. Poi, quando ebbe terminato di parlare, spense il mozzicone della sua sigaretta, sotto la suola dei suoi sandali, si alzò, accennò ad un saluto con la testa e si allontanò, trascinando la sua seggiola sull’acciottolato.
La mattina dopo, partii per il servizio di leva.
Ritornai a G****** nel giorno dei morti del 19**, grazie ad un congedo di 36 ore che il maresciallo G**** mi aveva concesso in via del tutto eccezionale, perché aveva combattuto, durante la Resistenza, con un alpino del mio paese che conoscevo.
Appena arrivato a casa, mia madre mi disse che il mio amico Francesco era morto, durante il mese di settembre, e che non mi aveva detto niente al telefono per non turbare la mia tranquillità in caserma.
Mi recai al camposanto e dopo aver onorato i defunti della mia famiglia, mi recai con calma alla tomba di Francesco.
Sul marmo bianco della sua tomba qualcuno, forse a conoscenza della sua fisima, aveva scritto con il pennarello indelebile il giorno, il mese e l’anno della sua morte.
Quest’anno, dopo una lunga assenza dovuta alla mia permanenza in Giappone per motivi di lavoro, sono tornato al cimitero di G**** e ho scoperto che gli eventi atmosferici ed il tempo che passa inesorabilmente avevano cancellato anche la scritta.
Uscendo dal camposanto, ho avuto l’impercettibile sensazione di sentire la sua voce stanca e labile che sussurrava una delle sue storie di guerra alle fronde dei cipressi che ornano la sua ultima dimora.