Erano i silenzi a dipingere la mia voce, a disegnare il contorno delle labbra leggermente dischiuse, labbra semplici e sottili sorrette da incerte verità, nell’atto di indugiare su impercettibili respiri.
E mentre il suo sguardo s’attardava sulle curve della personalità, la mia figura cominciava a delinearsi alla luce della sua descrizione.
Ad ogni pennellata le sue parole scoprivano una parte di me che lo specchio non era in grado di riflettere: le ombre dello sguardo nascondevano la mia natura malinconica mentre la felicità traspariva dalla pallida risata con la quale la vita ha incipriato la mia perlacea carnagione.
Non era un semplice ritratto, era il ritratto dell’anima, quello che solo un vero Maestro è in grado di riprodurre senza offuscarlo con il colore delle proprie imperfezioni, senza distorcerlo imbellettandolo con le proprie aspettative, senza vestirlo del drappo della menzognera adulazione.
Rimasi immobile fino a che non sopraggiunse la stanchezza della posa forzata.
L’irrequietezza infine si spazientì di rimanere seduta, di starsene ferma ad aspettare che l’opera fosse terminata, che il Maestro finisse di distruggere la mia intimità per ricomporla sulla superficie della tela del suo immaginario, così approfittai di un attimo di distrazione e mi alzai per fuggire dalla vista di quella che non potevo essere io.
Ero troppo diversa per essere io: una Chiara non poi così tranquilla, silenziosa e limpida.