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Ero giunto in quel piccolo paese del nord dell'Italia da poco tempo e un pomeriggio, camminando alla scoperta di quel luogo, lo vidi passare. Avevo già sentito parlare di lui e compresi che era quello che tutti chiamavano “Lo straniero”. Era un solitario. Si aggirava come un disperato, con un block notes nella tasca del suo Eskimo beige e una minuscola matita dietro l’orecchio. Scriveva segretamente poesie surreali che nessuno capiva, leggeva racconti di oscuri autori russi e ascoltava musica classica ad alto volume per ore nel suo piccolo “eremo” situato sulla collina che si affacciava sul mare. La popolazione lo rispettava ma lo evitava perché, inconsciamente, ne aveva quasi paura. Bofonchiava parole incomprensibili, come se stesse masticando perennemente gomma americana. Le parole pensate rimanevano bloccate allo stato embrionale del pensiero. Alcuni maligni affermavano che “Lo straniero” avesse superato la fase della comunicazione verbale e che, per farsi capire da quei pochi con i quali aveva a che fare, usasse o il silenzio e lo sguardo oppure, quando era costretto, si esprimeva con i gesti. Si recava al supermercato del paese in orario quasi di chiusura e comprava sempre carne in scatola e cibo per gatti, salumi e frutta. Alla cassa, pagava sempre in contanti, senza proferire parola, dando alla commessa di turno quasi sempre una banconota da 20 euro. Aspettava pazientemente il resto e se ne andava dopo aver ritirato le monetine, mettendosele in tasca senza nemmeno contarle. Nessuno conosceva il suo vero nome, da dove venisse e quale fosse la sua identità, non riceveva mai visite, non arrivavano mai lettere indirizzate a lui e sul citofono c’era scritto: affittasi. Si sedeva spesso su una panchina isolata del porto, quando calava il sole, e guardava il mare con immane tristezza. Nessuno si azzardava a sedersi vicino a lui. Indossava sempre un berretto di lana, anche d'estate, e il suo aspetto, nonostante fosse trascurato, emanava un alone d’inspiegabile mistero. A volte, qualcuno lo aveva visto accarezzare un cane randagio e dare da mangiare ai piccioni. A volte incuteva timore nelle persone che cercavano di aiutarlo soprattutto in prossimità del Natale o durante l’estate, quando arrivavano quei pochi turisti che lo evitavano come se fosse un appestato. Un giorno d’inverno, quando il vento di scirocco soffiava forte, mi feci coraggio e andai a trovarlo nel suo “eremo”. Suonai ripetutamente il campanello, poi aspettai pazientemente che aprisse la porta. Niente. Vidi soltanto da lontano una tendina muoversi. Dopo alcuni tentativi, andai via.
Lo persi di vista per alcuni anni perché, prima, andai a studiare all’università di Bologna, poi a fare il servizio di leva a L’Aquila e il lettore di francese a Lilla, in Francia.
Qualche anno più tardi, quando mi ero trasferito definitivamente nell’Italia settentrionale, mentre stavo navigando su Internet, un articolo su una testata on cline attirò la mia attenzione. Lo riconobbi immediatamente dalla foto.
C’era scritto a caratteri cubitali: “É morto l’uomo del silenzio. Aveva smesso definitivamente di parlare trent’anni fa. Nel paese, dove ha passato gli ultimi anni della sua travagliata vita in assoluta solitudine, lo chiamavano solo “Lo straniero”. È stato trovato senza vita, nel suo “eremo”, in mezzo ad una marea di libri e di appunti. Il sindaco per l'occasione aveva indetto una giornata di lutto cittadino, per commemorare la sua scomparsa”.
A novembre, mi sono recato al cimitero del paese, per rendergli omaggio. A quell’uomo misterioso portai un crisantemo sulla tomba dove qualcuno aveva scritto sulla povera lapide con il pennarello: “Qui giace l’uomo che sapeva ascoltare in silenzio il vento”. |
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.
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«Il viso di quell'uomo mi rimarrà impresso nella mente per sempre...» |
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