L’ho notata subito, appena sono approdato a C*****, nel 1985, il paese di montagna che sarebbe diventato con il passar del tempo la mia dimora stabile.
La chiamavano tutti affettuosamente “Mille miglia”.
Poteva avere sessant’anni o forse anche settanta. Portati male. Era oggettivamente difficile darle un’età precisa perché era sempre vestita allo stesso modo, durante tutte le stagioni dell’anno, nonostante il tempo quell’anno non fosse particolarmente clemente.
Indossava un lungo cappotto grigio, un foulard di cotone, delle calze scure e un paio di vistose scarpe nere. Camminava rigorosamente contromano in mezzo al traffico assordante, passando a zig-zag tra le macchine incolonnate ai rondò o davanti ai semafori. A volte, si copriva la bocca con un fazzoletto a quadretti che teneva perennemente nella mano sinistra, mentre con l’altra mano portava un’enorme borsa nera stracarica di effetti personali non meglio identificati.
Si alzava prestissimo la mattina, alcuni vicini affermavano che dormisse vestita per non perdere tempo, usciva di casa senza nemmeno chiudere la porta a chiave e cominciava a camminare per ore in mezzo al traffico cittadino, poi si dirigeva sempre in direzione di L*****. Il suo passo diventava sempre più veloce, abbassava la testa e guardava l’asfalto con lo sguardo perso, mormorando tra i denti parole incomprensibili.
A volte, la incontravo anche di notte, come un fantasma, in mezzo alla nebbia…
Mi ricordo che una volta, mentre tornavo a casa, rallentai con la macchina, non riuscii a fermarmi perché lei continuava a camminare e le chiesi se volesse un passaggio. Mi guardò di traverso, come se le avessi fatto una proposta indecente, chinò il capo e scomparve in una strada buia.
Da quella volta, capii che preferiva camminare piuttosto che comunicare con gli altri…
Era il mese di gennaio 1986, se non ricordo male, e dovevo assolutamente recarmi a L***** per far fotocopiare delle sceneggiature da consegnare a un concorso. Nevicava a cielo aperto da quarantotto ore e il traffico era praticamente paralizzato.
Aspettai pazientemente l’arrivo dello spazzaneve. Poi quando finalmente arrivò, lo seguii a passo d’uomo. A metà strada, tra C***** e L***** l’autista scese dal mezzo e scomparve in mezzo alla tormenta di neve. Aspettai pazientemente il ritorno dell’uomo, ma siccome non tornava indietro, scesi dalla macchina, mi guardai intorno con circospezione e, dopo averla inspiegabilmente chiusa a chiave, mi avvicinai all’autista che parlava sommessamente con altre due persone. Non ebbi bisogno di fare domande sull’accaduto perché riconobbi subito “Mille miglia” dalle sue scarpe.
Era morta assiderata, inginocchiata davanti ad un albero e sembrava che stesse ancora pregando. Mi avvicinai rispettosamente al cadavere della donna e notai che stringeva, tra le mani congiunte, una vecchia fotografia che ritraeva un giovane uomo.
“Non tocchi niente, signore – mi intimò l’autista – è meglio chiamare i Carabinieri!!!”
Fu in quel preciso momento che mi resi conto che c’era una piccola targa commemorativa inchiodata al tronco dell’albero rinsecchito.
Per una scelta di vita, forse, opinabile dal punto di vista razionale, “Mille miglia” si era lasciata morire di freddo, durante una nevicata memorabile, a pochi metri dal posto in cui il figlio, poco più che ventenne, fu investito da un pirata della strada, mentre faceva footing, e lasciato morire dissanguato come un cane randagio all’ombra di un cipresso secolare.