Li guardava mentre sfogliavano i dizionari di Latino, concentrati nella ricerca del termine migliore o nella speranza di trovare la frase fatta che potesse risolvere quel passo davvero incomprensibile.
Qualcuno bisbigliava una disperata richiesta di aiuto al compagno del banco accanto o addirittura cercava di mettersi in contatto con l’amica del cuore, seduta all’angolo diagonalmente opposto dell’aula, per captare a distanza qualche salvifico suggerimento.
Claudia, forte del suo otto al primo trimestre, se ne stava tranquilla, china sul suo foglio, come se nulla potesse toccarla o distrarla in quel lavoro che alla maggior parte dei suoi compagni stava dando tanto filo da torcere.
Di tanto in tanto si portava alla bocca il cappuccio della penna, mordicchiandolo, ma non per ansia, solo per concentrarsi meglio, per assicurarsi di applicare bene la regola che le pareva di aver individuato nel periodo che stava traducendo.
Fausto, invece, seduto davanti a lei, si era già fatto prendere dalla disperazione: si capiva chiaramente che era in difficoltà da quel suo volgersi indietro continuamente, da quel passarsi con forza le dita tra i capelli, come a voler scavare nel cervello per trovarvi allineate in bell’ordine tutte le regole morfosintattiche mai studiate e così indispensabili in quel frangente.
Catia e Irene si scambiavano occhiate malinconiche, accompagnate da sospiri di rassegnazione, mentre Gino si consolava con le patatine nascoste in bella vista dietro l'astuccio della Comix, portandole alla bocca una dopo l’altra e smettendo di masticare ogni volta che lei lo guardava. L’importante era che riuscisse a tradurre qualcosa, pensò tra sé, distogliendo lo sguardo, altrimenti sarebbero stati davvero pasticci per lui! Nel banco alla sua destra, Luigia cercava di dissimulare ,sfogliando e risfogliando il dizionario, i maldestri tentativi di consultare il fogliettino pieno di regolette morfosintattiche sapientemente attaccato sulla pagina della Y: erano così rari i termini che iniziavano con la Y in latino!
Al centro dell'aula, il gruppetto dei “discreto” traduceva con una certa tranquillità e con serietà davvero ammirevole: il metodo di lettura e analisi previsionale del testo era stato assimilato bene e i risultati si vedevano, per fortuna.
La campanella della prima ora fece trasalire tutti, provocando mormorii di terrore misti ad esclamazioni di meraviglia sulla velocità stratosferica del tempo durante il compito di latino.
Non appena il silenzio fu ripristinato, si alzò in piedi Emanuele per chiedere, con la solita aria innocente, di poter uscire “solo un attimo”: avrebbe lasciato il foglio della brutta copia sulla cattedra e sarebbe tornato in men che non si dica. Allora lei si alzò e gli si avvicinò, per dare un’occhiata alla traduzione e tirarlo fuori dal baratro con qualche consiglio: forse avrebbe rinunciato a correre al bagno per farsi qualche tiro di sigaretta tanto inutile per il compito quanto dannoso per i polmoni.
Portata a termine la missione di soccorso, se ne tornò alla cattedra e riprese ad osservare i suoi alunni.
Suoi! Fino a quando? La scuola avrebbe chiuso i battenti il 12 giugno, quell’anno, e per lei non ci sarebbe stata un’altra apertura a settembre. Aveva prodotto domanda di collocazione a riposo e non si poteva più tornare indietro, la richiesta era irreversibile, definitiva, i termini per la revoca erano scaduti.
Aveva tenuto segreta la notizia il più a lungo possibile e l’aveva fatto soltanto per i suoi ragazzi, per evitare che si facessero prendere dall’ansia al pensiero di dover cambiare insegnante l’anno successivo: ciò avrebbe comportato la necessità di adeguarsi ad un metodo di insegnamento diverso, probabilmente anche migliore, ma tuttavia diverso; avrebbe richiesto uno sforzo di adattamento a situazioni nuove, come imparare a conoscere il carattere del docente che l’avrebbe sostituita, “inquadrarlo” per scegliere la tattica di interazione più efficace e conveniente ad entrambi, alunni e “avversario/possibile amico”; sarebbe stato indispensabile “studiarsi” bene a vicenda per imparare a conoscere i punti di forza e debolezza dell’uno e degli altri, per poi avviare il rapporto docente-discenti su basi chiare e soprattutto leali.
A tutto questo pensava durante il periodo in cui aveva tenuto nascosta la decisione alle sue tre classi. Perché quell’anno erano appunto tre: una prima, una terza e una quarta.
Tre classi importanti, ciascuna per una buona ragione: la prima, proveniente dalle scuole medie, si stava avviando al percorso di studi superiori; la terza era passata dal biennio al triennio, con un grande sforzo di adeguamento a metodi, programmi, docenti diversi; la quarta si preparava ad affrontare l’anno terminale di studi e l’Esame di Stato.
E lei le lasciava,in un momento così delicato.
Li guardava con grande tenerezza, mentre si affannavano a tradurre le ultime righe del “De Catilinae coniuratione”, lanciando occhiate frequenti e disperate alle lancette degli orologi o ai display dei cellulari (nascosti in bella vista sotto i banchi).
Qualcuno già aveva trascritto in bella copia la traduzione e, fingendo di rileggere il proprio compito, tentava di suggerire qualcosa ai compagni in panne; altri coprivano le cancellature con il correttore, malgrado i ripetuti divieti, nella speranza che l’impaginazione pulita potesse compensare la presenza di qualche errore; altri ancora continuavano a sfogliare il dizionario, tentando di aggiungere uno o due termini all’ultima parte lasciata in sospeso.
Quando avevano avuto la certezza che sarebbe andata via, dopo aver preteso di sentirlo dalle sue labbra, qualcuno aveva pianto,tutti si erano intristiti. L’avevano anche rimproverata di non aver pensato a loro abbastanza, di essere cattiva, le avevano chiesto di ritirare la domanda, di rimanere un anno, due ancora, per accompagnarli alla maturità, e poi sarebbe potuta andare via tranquillamente.
Mentre girava tra i banchi per raccogliere gli elaborati, consegnati puntualmente oltre il termine assegnato, li guardava ad uno ad uno e li sentiva tutti suoi, come fossero davvero dei figli adottivi, completamente annullate le distanze, le differenze di ruolo, il giusto distacco che deve esserci, secondo le regole, tra un docente e un alunno.
E in quei pochi minuti le tornarono alla memoria tutte le esperienze più belle, gratificanti, piacevoli di tanti anni di insegnamento in quel liceo, che era stata un po’ anche casa sua, e in una carrellata velocissima le sfilarono dinanzi centinaia e centinaia di volti giovani e allegri, a volte tristi e malinconici, a volte anche adirati e bellicosi, ma in ogni caso pieni di vita e di speranza e si rese conto che una fase della sua vita si sarebbe chiusa al termine di quell’anno scolastico.
Non sarebbe tornata a lavorare l’ autunno successivo.
Ma quel pensiero non la intristì.
Se aveva seminato bene e con amore, avrebbe raccolto la dolcezza dei frutti anche stando lontana dal campo.