Le ali del trionfo
Tornava ogni volta senza che lei lo chiamasse; tornava anche se si imponeva di non muovere neppure le labbra, nel timore che una seppur minima vibrazione di esse potesse essere interpretata come un richiamo; tornava anche se si sforzava di annullare ogni pensiero con la tecnica del concentrarsi su uno schermo bianco, vuoto: tornava a ridisegnarsi su di esso prepotentemente, con contorni così netti e precisi che sarebbe stato impossibile non riconoscerlo e desiderarlo al di là di ogni resistenza, di ogni tentativo di rifiuto, di ogni miserevole proposito, destinato puntualmente a fallire.
E allora cedeva, e mentre cedeva si pentiva, logorando col pentimento quel piacere già di per sé così breve ed effimero.
Al pentimento si accompagnava l’insorgere di un nuovo proposito, rafforzato dall’ingannevole certezza di una futura vittoria. Così ogni volta un consapevole, razionalissimo autoinganno della coscienza le permetteva di trarre un po’ di godimento dall’errore appena commesso, e questo poteva apparire addirittura meno grave di quanto fosse in realtà proprio perché destinato ad essere assolutamente l’ultimo.
Quando tutto era compiuto, una sensazione di profondo avvilimento si impossessava di lei e allora iniziava l’autoanalisi, l’impietosa ricerca di un perché in grado di far luce sulle cause recenti e remote della sua debolezza, della sua incapacità di mantenersi coerente con quanto le sembrava di aver definitivamente pianificato in precedenza.
Ricordava con fastidiosa precisione tutti i ragionamenti che avrebbero dovuto sostenerla in quella prova di resistenza e in maniera esattamente speculare ricordava anche gli alibi fittizi che ogni volta si era creati per giustificare i ripetuti fallimenti.
Punto primo: doveva pensare ai suoi figli: avevano il diritto di appoggiarsi a lei ancora per molto , e se il concetto di “appoggiarsi” non era pedagogicamente e psicologicamente corretto, avrebbero comunque avuto il diritto di pensare che la loro madre c’era e sarebbe stata con loro ancora a lungo. Dovevano poter guardare a lei come ad un esempio di coraggio, di forza di volontà, avere la certezza che i suoi comportamenti non dipendessero dagli umori del momento e men che meno dalle imprevedibili e incontrollabili bizzarrie di una dipendenza fisica e psicologia come quella di cui soffriva palesemente ormai da troppi anni.
Ecco! L’aveva pronunciata quella parola terribile, odiata, maledetta eppure così spietatamente vera.
Punto secondo: doveva pensare a suo marito, terrorizzato all’idea di perderla e di rimanere come un povero naufrago aggrappato ad un salvagente di sughero che prima o poi si sarebbe saturato e l’avrebbe trascinato con sé al fondo di un gorgo senza risalita.
Si era accorta che quei cedimenti continui stavano danneggiando irreparabilmente il suo fisico: di notte una tossettina secca e stizzosa le impediva di riposare e ogni qual volta si svegliava nel sonno assalivano i rimorsi, si malediceva per aver ceduto anche il giorno prima, prometteva a se stessa che avrebbe smesso anche di pensarci e ciò sarebbe avvenuto fin dalla mattina successiva, appena la luce del sole fosse penetrata nella stanza, illuminandole il viso e la mente.
Recitava senza rendersene conto la solita parte del solito copione e l'aveva memorizzata così bene che ormai le sembrava realtà.
Scena prima
Ce l’avrebbe fatta, ne era certa questa volta, anche perché il giorno che stava per iniziare non sembrava foriero di ansia: non prevedeva impegni gravosi nel lavoro, in famiglia pareva filare tutto liscio, quel tailleur che aveva acquistato giorni addietro le avrebbe risparmiato la fatica di pensare all’abbigliamento da indossare per l’incontro poetico del pomeriggio (ci stava ad hoc anche la collana di perle a doppio filo!), la scelta dei testi da leggere era stata completata, ogni cosa pareva sistemata per bene.
L’alibi del nervosismo da tenere sotto controllo o quello del dover far fronte ad imprevisti quel giorno non avrebbe retto. Era dunque il momento ideale per mettere la parola FINE a quel tormento.
Tutti l’avrebbero apprezzata, se ci fosse riuscita. La stima di cui già godeva per le sue capacità professionali, per il carattere socievole, per il suo senso profondo della famiglia e dell’amicizia, che dimostrava in ogni occasione, si sarebbe moltiplicata di fronte a questa prova di forza, a questa eccezionale dimostrazione di coerenza tra il proposito e la messa in atto del proposito stesso.
Si sentì invadere da una gioia incontenibile, da una soddisfazione piena, tangibile, molto simile – pensò – a quella che dovevano aver provato millenni addietro i grandi generali della storia greca e romana al termine di un difficile combattimento, vedendo se stessi vincitori sul campo di battaglia e il nemico annientato, reso per sempre inoffensivo. Dovevano certo aver pregustato gli onori del trionfo, quando le ali del loro giusto orgoglio si sarebbero levate in alto, spiegandosi ampie come quelle di un’aquila reale che si innalza sulla folla al grido del peana.
Forse il paragone era un tantino esagerato e allora lo modificò, dandogli le giuste dimensioni: quel giorno si sarebbe sentita semplicemente orgogliosa di se stessa, come madre, moglie, donna, come una persona finalmente capace di dominare con la forza della mente un miserabile impulso, un’abitudine radicatasi come un tumore maligno nel suo cervello, una debolezza che la umiliava in ogni istante della sua vita urlandole in viso la subdola forza che esercitava su di lei malgrado il nome che le si dava, un nemico silenzioso e strisciante, che stava minando pian piano il suo fisico e prima o poi l’avrebbe uccisa.
Scena seconda
Ore 7:00
Il caffè fumante diffondeva il suo intenso aroma nella piccola cucina illuminata dal sole. Se ne versò una tazzina e ne bevve un sorso bollente ad occhi chiusi, per gustarne fino in fondo il sapore pieno e cremoso. Poi li riaprì e allungò la mano verso il pacchetto di sigarette poggiato sulla mensola del camino. Ne portò una alle labbra e l’accese, inspirando profondamente la prima boccata.
Scena terza ed ultima
Nella piccola nube di fumo che invase l’aria, l’aquila del trionfo dibatteva disperatamente le ali per mantenersi in alto. Infine precipitò ai suoi piedi, affondando nel mucchio dei buoni propositi sconfitti come sempre, mentre il grido del peana si spegneva tristemente ancora una volta.
(FINALE ALTERNATIVO)
Scena seconda
Ore 7:00
Il caffè fumante diffondeva il suo intenso aroma nella piccola cucina illuminata dal sole. Se ne versò una tazzina e ne bevve un sorso bollente ad occhi chiusi, per gustarne fino in fondo il sapore pieno e cremoso. Poi li riaprì e con molta tranquillità si volse a guardare il suo nemico, che se ne stava in attesa sulla mensola del camino. Azzurro, semiaperto, a lasciar meglio intravedere il suo allettante contenuto, aspettava soltanto di essere afferrato, come al solito, con avido desiderio.
La tentazione era così forte che le mani si muovevano quasi da sole sul ripiano del tavolo, pronte a cedere senza opporre resistenza. L’impulso era fortissimo, come se in quel piccolo, insignificante pacchetto azzurro ci fosse una potente calamita, come se tutta la forza di gravità si fosse spostata dal centro della terra per convergere in quella stupida scatolina di cartone che l’attraeva a sé , e lei avrebbe ceduto ancora una volta, senza scampo.
Si sentì un verme. Dov’era finita la sua intelligenza, la volontà che non era venuta meno in tante altre prove sicuramente più difficili, dove era finita la capacità di mettere se stessa sempre al secondo posto, per amore? Capì che la vittoria o la sconfitta dipendevano soltanto dalla forza di quel momento. Un ulteriore cedimento le avrebbe tolto ogni speranza di futura rivincita. Pensò ai generali della storia antica e sorrise.
Scena terza ed ultima
Allungò la mano verso il pacchetto di Camel blu, lo afferrò e, con tutta la forza che aveva nelle dita, lo stropicciò nel palmo fino a ridurlo in un miserabile cartoccio informe, poi lo gettò nel camino.
Nella stanza illuminata dal sole del mattino, l’aquila del trionfo spiegò le ali, librandosi in alto al grido del peana.