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Storia di paese (Una visita inaspettata) 26 episodio

Fantasy

Don Vincenzo, continuava la vita di sempre, si faceva forza occupandosi dei suoi campi ed in particolare dei suoi splendidi cavalli, ma non si dorte di Totuccia e spesso vagava per la tenuta con lo sguardo assente e con in testa un solo pensiero, il ricordo della sua amata ed era ossessionato dal desiderio di trovare il suo assassino per poterlo assicurare alla giustizia. Dopo una notte insonne, come al solito si era alzato all’ alba ed il suo primo pensiero fu proprio quello di riuscire a trovare qualcosa che lo potesse aiutare a risolvere il mistero. Nonostante si sforzasse, non gli veniva in mente nessun particolare, solo un dubbio come un tarlo, iniziava a farsi strada nella sua mente, il comportamento strano di Liborio: Si era sempre fidato di lui, lo considerava come un fratello, eppure negli ultimi tempi c’ era qualcosa in lui che gli sfuggiva, tra le altre cose e in più occasioni, lo aveva sorpreso mentre lo fissava con uno sguardo insolito, quasi cattivo. Per questo motivo, nonostante gli costasse molto, aveva deciso che doveva indagare e seguire i suoi spostamenti proprio per eliminare ogni dubbio, che ormai come un tarlo gli girava in testa.

E fu così, che proprio quella mattina decise di recarsi in caserma dal maresciallo Calogero, per informarsi sugli sviluppi delle indagini, sempre se ce ne fossero stati, visto che già dopo un mese e mezzo dal primo omicidio non si era ancora saputo nulla di concreto. Stava per uscire a cavallo quando Liborio vedendolo gli chiese: ” Baroni haju a vì eniri cu vuatri? “

Don Vincenzo si guardò bene da insospettirlo e rispose con naturalezza: “ Noni… noni fazzu ‘ na passiata, tuni mpignati ri li cavaddi.”

Strigliò Bernardu (il suo cavallo preferito) e si allontanò a galoppo, Liborio si fermò a guardarlo perplesso, non era da lui allontanarsi dalla tenuta da solo, ma distolse questo pensiero dalla mente e si recò nelle stalle.

Nel frattempo, nei suoi alloggi segreti, la marchesa Carolina ripensava a quel giorno in cui la sorella l’ aveva cacciata senza tentennamenti e a Don Ugo, viscido serpente che si era approfittato della sua ingenuità mettendola incinta. Filomena cacciandola di casa aveva decretato la sua fine, infatti una mattina non si era più svegliata, la servitù impazzita chiamò immediatamente il medico del paese, il quale non aveva fatto altro che constatarne la morte. La causa ufficiale fu un’ indigestione, ma nessuno poteva sospettare che qualcuno le avesse messo del veleno nella camomilla, che era solita bere la sera per addormentarsi con più facilità. Liborio come sempre, era stato bravissimo a mettere in atto il suo piano diabolico. Lei la mamma, poteva essere soddisfatta di come aveva cresciuto suo figlio, aveva la sua stessa capacità di raggirare le persone che gli stavano intorno e facendo sempre i propri interessi.

Riflettendo meglio, pensò che i tempi erano maturi per completare tutto il suo quadro criminale. Era giunto il momento di uscire allo scoperto, così decise che quella sera ne avrebbe parlato con il figlio Liborio.

Don Vincenzo, poco dopo le 8 era arrivato in paese, le strade del piccolo centro iniziavano ad affollarsi, ognuno si dedicava alla proprie attività quotidiane, chi si recava al mercato del pesce, chi apriva le poche botteghe esistenti, chi si scambiava i soliti pettegolezzi paesani e davanti alla piazzetta, seduti sulle panchine i vecchi si raccontavano storie antiche di guerra e di povertà.

Al passaggio di Don Vincenzo tutti si ammutolirono e guardandolo con curiosità e rispetto lo salutarono con ammirazione. Quando poi lo videro entrare in caserma, il desiderio di sapere cosa ci facesse lì di buon mattino, accrebbe notevolmente l’ interesse di tutti.

Il maresciallo lo fece entrare chiedendogli come poteva essergli utile e lui: “ Bon jornu, vinni pi sapiri si aviti scoperto qualcuosa arrì eri (di nuovo) supra nta morti ri Totuccia.”

Calogero rispose: “ Prì misi cu rispì ettu nun vi pozzu diri nenti, quannu si conuscerà na sintenza u sapranno tutti.”

Il barone risentito lo incalzò: “ Iu nun sunnu tutti…”

Il maresciallo: ” Ri frunti a liggi siti comu li autri. I chistiani nà sciunu, tutti lì bbiri e tutti i stissi, pi dignità e diritti.”

Il maresciallo continuò dicendo: ” E duoppu vuatri cu ci siti a Totuccia, ‘ n parente? Nun mi para.”

Don Vincenzo: ” Avemu ‘ na figghia pi comune, nun vi basta?”

Il maresciallo infastidito dall’ arroganza del barone, piuttosto che perdere tempo con lui, lo liquidò in fretta dicendogli che aveva delle cose importanti da fare. Al barone, con la coda fra le gambe, non restò che andarsene amareggiato per non aver saputo nulla.

Uscendo dalla caserma dei Carabinieri e prima di tornare alla sua tenuta, pensò di fare una breve visita a Rosalia, anche per vedere come stavano sia lei che la piccolina e così si diresse verso la cascina. In groppa al proprio cavallo decise di prendere una scorciatoia che tra l’ altro passava proprio dal vecchio mulino.

Quando si trovò nei pressi della casa di Munidda sentì l’ impulso di fermarsi e di dare un’ occhiata nel granaio dove era avvenuta la disgrazia. Un’ improvvisa folata di vento chiuse la porta di legno facendola sbattere, lui istintivamente si girò, come se sentisse la presenza di qualcuno, poi vedendo che non c’ era nessuno si avvicinò alla scala per rendersi conto come poteva essere caduta la tata. Il sole filtrava fra le fessure del legno e fece brillare qualcosa che era per terra quasi nascosto fra la paglia. Con grande meraviglia si accorse che si trattava del gallone di Liborio, non poteva averlo perso facilmente, infatti era legato ben stretto alla cintura e notò che il nastro era strappato. Come poteva essere finito lì? Anche se era stato fra i primi a vedere Munidda morta, non gli era certamente caduto incidentalmente in quell’ occasione. Ora i dubbi nei suoi confronti aumentarono sensibilmente ed un atroce sospetto si insinuò come veleno nella sua mente. S’ infilò il gallone in tasca e continuò il suo cammino.

Quando giunse nei pressi della cascina, Rosalia fu molto contenta di vedere arrivare il padre, dopo la morte della madre era sempre più convinta di voler iniziare un buon rapporto con lui. Sentiva la necessità di avere qualcuno che le stesse vicino senza doppi fini, ma soltanto per l’ affetto che nutriva nei suoi confronti. E chi meglio di un padre poteva avere un amore disinteressato? Così gli andò incontro, Don Vincenzo restò piacevolmente sorpreso dell’ accoglienza della figlia ed anche rincuorato nel vederla in buona salute, almeno così gli sembrava. Aveva in braccio la piccola Rosalia che quando lo vide stese le braccine per essere presa in braccio da lui. Il barone la sollevò e se la mise sulle gambe, mentre stava ancora a cavallo e così gli fece fare un piccolo giro fra le risate della bimba e di Rosalia.

Rosalia osservò con gioia quella scena e vedendoli insieme felici, colse la normalità di un nonno che si coccolava la propria nipotina. Per un istante dimenticò tutte le sue sventure e poi chiese al barone: “ Comu mai vuatri ccà?”

“ Picchì? Nun sunnu nenti pi tia? E dopu vinni accussì mi fai vì viri chiddu bicchì eri ri vinu chi faciti vuatri… pi paì si si dici chi jè ‘ na cù osa fini.”

Rosalia sorridendo: “ Hannu raggiuni… A zia e me matri u fannu…”

Poi si corresse diventando improvvisamente triste: “ U facì evanu cu tantu amuri e cu l’ uva megghiu.”

Intanto Assuntina dalla veranda li vide arrivare, Don Vincenzo e la bambina erano a cavallo, mentre Rosalia, dopo aver preso le redini, lo conduceva verso casa. Disse fra sé: “ Totuccia soru mo, si contenta ù ora? Patri e figghia nzemi, manchi solu tu… U Signuri avi vulutu accussì… E si fece il segno della croce come se avesse bestemmiato, infatti non era stato Dio a volere che la uccidessero ma come ripeté ad alta voce: ” U dià vulu nta nfernu…”

Il barone s’ intrattenne per circa un’ ora a giocare con la piccolina e a chiacchierare con Rosalia, così seppe anche della visita di Bruno e della sua permanenza per qualche giorno nella cascina, impegnato nella raccolta delle ciliegie. Lui si propose anche di mandare qualcuno dei suoi uomini se avessero avuto bisogno di altra manodopera, ma le due donne risposero che bastavano solo Nino e Bruno e poi c’ erano anche loro.

Alla fine si salutarono con la promessa che si sarebbero visti presto e nell’ andare via Don Vincenzo disse a Rosalia: “ Figghia mo, iu pi tia ci sunnu sì empri… nun tu scurdari mai. “

Quando ritornò al maniero, trovò la vecchia domestica Cicca che le diede la notizia: “ Don Lenzu, vinna Liborio e risse cu vuatri zia Carolina, a soru ri a buonanima ri a baronessa, veni ca a fari visita pi quà lchi jornu…”

Questi sorpreso dell’ improvvisa venuta di questa fantomatica zia si contrariò parecchio, la madre gli aveva parlato di lei, ma in modo sfuggente e dicendogli che era una persona cattiva, molto diversa da lei… una donna che era meglio non averci niente a che fare, difatti diceva che avevano litigato per interessi, e dopo lei si era allontanata per sempre dalla tenuta portandosi dietro tutti i gioielli di famiglia di grande valore e non erano pochi.

Tuttavia non era mai successo che qualcuno fosse giunto alla tenuta e non fosse stato ospitato, quindi, doveva rassegnarsi ad avere una perfetta sconosciuta intorno per qualche giorno. Poi chiese di Liborio e Cicca gli disse che dopo aver annunciato l’ arrivo della marchesa era uscito e non era ancora rientrato. Don Vincenzo ordinò alla domestica di preparare la stanze degli ospiti e le raccomandò che tutto fosse in ordine, inoltre, le domandò se sapesse a che ora sarebbe arrivata, anche se aveva del lavoro da sbrigare, voleva essere presente per il suo arrivo. Cicca riferì ciò che aveva detto Liborio che molto probabilmente sarebbe giunta in tarda serata, Don Vincenzo tirò un sospiro di sollievo, aveva molto da fare e la notizia lo rassicurò.

Carolina con il figlio avevano architettato la farsa del suo arrivo nei minimi dettagli, sarebbe arrivata con Sciabè, “ U carritteri” come una qualunque forestiera, con pochi bagagli, segno di volersi fermare per poco tempo, poi doveva fingere un affetto che non provava per il nipote tanto odiato e infine avrebbe dovuto comportarsi con la massima prudenza in presenza di chiunque avesse accesso alla casa. Infatti, come diceva spesso: “ Macari (anche) i muri hannu i aricchi.”

La sera s’ alzò un vento improvviso che scuoteva i rami spruzzando pioggia di fiori e nel viale di aceri rossi si fermò un carro. La gran dama scese con eleganza e chiese a Sciabè di bussare al grande portone. Aprì Liborio e fece entrare la marchesa… Il barone corse per darle il benvenuto e rimase colpito dalla forte somiglianza con la madre, sembravano gemelle, l’ unica cosa che le contraddistingueva era l’ altezza, la zia era molto più alta.

Don Vincenzo: “ Cara zia, bimminuta ‘ nta casa mo…”

La marchesa: ” Grazzi a tia pi l’ ospitalità, quantu tiempu jè passatu, ti lassavi picciriddu e ti attruvu omu…”

Dopo i convenevoli Cicca accompagnò Carolina nelle stanze degli ospiti, questa guardandosi attorno disse fra sé: “ ‘ N à utru picca e duoppu tuttu sarrà arrì eri (di nuovo) miu.”

Cenarono nella grande sala, dove un tempo si riunivano tutti i nobili del circondario, che dopo aver trascorso nei boschi tutta la giornata, impegnati nelle battute di caccia, facevano banchetto con la selvaggina presa.

Il lungo tavolo li divideva, tant’è che la distanza non permetteva il minimo contatto, il barone studiava da lontano quella parente arrivata così all’ improvviso e come prima sensazione non gli piacque, lui si era sempre fidato del suo istinto, c’ era qualcosa di falso nel suo modo di fare, sembrava che recitasse una parte ben studiata. Le aveva presentato Liborio come una persona fidata, a cui poteva rivolgersi in qualsiasi momento, però non gli era sfuggito il sorriso che si erano scambiati… Ma forse, pensò era soltanto suggestione.

Dopo cena chiacchierarono del più e del meno, dopodiché ognuno si ritirò nelle proprie stanze. Don Vincenzo prese il gallone trovato nel granaio di Munidda e toccandolo fu attraversato da un tremito che lo fece rabbrividire, aveva una brutta sensazione, come se dovesse capitare qualcosa di molto, molto brutto. Comunque si coricò con la speranza di poter dormire almeno qualche ora, ormai erano settimane che riposava poco e male. Purtroppo anche quella notte si svegliò di soprassalto con la sensazione di soffocare, scese al piano di sotto, e poi decise di uscire nel giardino. Stava attraversando la parte posteriore della casa quando intravide, dalla piccolissima finestra con le grate che davano ai sotterranei, una fioca luce.

Credette che fosse un riflesso della luna piena, che quella notte era particolarmente luminosa, ma si accorse che non era così. Erano anni che non andava più lì sotto e sapeva che solo Liborio ogni tanto scendeva a controllare che era tutto a posto. Comunque gli sembrò improbabile che fosse lui a quell’ ora in giro per la casa.

Ciò nonostante volle andare a controllare nella sua stanza, bussò più volte, poi finalmente venne ad aprire tutto assonnato: “ Baroni, chi succediu? “ Don Vincenzo gli disse: ” Haju sentito r’ i rumori intra ri stadde, otinni pi vidiri…”

Liborio: “ Vaiu nabbotta…”

Dunque Liborio non era nel sotterraneo, Don Vincenzo pensò che l’ indomani appena si fosse fatto giorno sarebbe andato a dare un’ occhiata.

Nella cascina intanto la notte era trascorsa come sempre, Rosalia piena di pensieri, non era riuscita a dormire e quindi si era messa a lavorare all’ uncinetto, stava facendo dei centrini per la sua dote. La figlia, che ogni tanto si svegliava piangendo e lei amorevolmente la cullava fino a quando si riaddormentava. Le cantava una bellissima ninna nanna molto antica che le aveva insegnato sua madre Totuccia: “ Avò l’ amuri miu, ti vogghiu beni

L’ ucchiuzzi di me figlia, su sereni. Oh

Chi avi la figghia mia, ca sempri cianci, voli fattu la naca

Menzu l’ aranci. Oh

Specchiu di l’ occhi mia, facci d’ aranciu, ca mancu ‘ ppun tesoru

Sciatu di l’ arma mia, facciuzza bedda, la mamma t’ ava fari munachedda. Oh

E munachedda di lu Sarvaturi, unni ci stannu i nobili e i signori. Oh

Ora s’ addummisciu, la figghia mia, guardatimilla vui, Matri Maria. Oh

Così con l’ ascolto della voce suadente della mamma, la piccolina si riaddormentava tranquilla.

Nel frattempo nel capanno, Nino non riusciva neanche lui a dormire e nella veglia sorvegliava Bruno considerato un suo rivale, proprio come fa un cacciatore con la sua preda, ma neppure questi riusciva a riposare ed entrambi si controllavano a vicenda di nascosto come fanno il gatto con il topo.

La convivenza forzata tra i due non era facile, entrambi amavano la stessa donna ed anche se Nino aveva avuto il consenso di Rosalia per sposarlo, tuttavia non si sentiva affatto sicuro, doveva affrettare i tempi del matrimonio, proprio per evitare eventuali ripensamenti e dubbi. Dovevano fissare la data delle nozze nel più breve tempo possibile, anche se per le circostanze avrebbero dovuto aspettare almeno un paio di mesi dal lutto della povera Totuccia. In ogni caso determinare la data era già un grande passo avanti, voleva dire rendere pubblico l’ evento e difficilmente sarebbero potuti tornare indietro, se non con il rischio di un ennesimo scandalo.

Decise che l’ indomani ne avrebbe parlato con Rosalia, però senza forzarle la mano, conoscendola sapeva che non voleva che nessuno disponesse della sua vita e facendole pressione avrebbe ottenuto l’ esatto contrario.

La giornata si prospettava bella e assolata, la marchesa volle fare colazione nel grande parco della tenuta, Cicca per l’ occasione aveva disposto un piccolo buffet di prelibatezze siciliane delle “ Brioche col tuppo” così chiamate per la loro forma rotonda e poi nella parte superiore una pallina a forma di “ Tuppo” acconciatura tipica delle donne siciliane con i capelli lunghi. Farcite con pistacchio, mandorle, caffè e cioccolato. La donna le apprezzò molto, tant’è che fece i complimenti alla domestica, la quale fu felice che finalmente dopo tanto tempo qualcuno apprezzasse la sua cucina.

Ma alla marchesa era sfuggito un particolare, Cicca era al servizio dai baroni da tempo, anzi da troppo tempo ed era anche a conoscenza di molti segreti della famiglia, fra cui quello più importante, che lei quando era stata cacciata da palazzo era in stato di gravidanza. Cicca si domandava che fine avesse fatto quel bambino, che poi in realtà sarebbe stato la sorellastra o il fratellastro di Don Vincenzo.

Anna Rossi 02/06/2021 04:49 1 912

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.

I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Commenti sul racconto Commenti sul racconto:

«Certo che adesso è tutto chiaro, almeno sembrerebbe... se non dovessero esserci altri colpi di scena, la vendetta di Liborio e della madre, è vicina alla conclusione. La Marchesa Carolina è sempre più convinta di aver vinto... e potrà avere tutte le ricchezze di Don Vincenzo. Ma Don Vincenzo comincia ad essere sospettoso e dopo aver trovato il gallone di Liborio, ha più di un dubbio sullo stalliere, nonché suo uomo di fiducia. Ma... entra in scena, Cicca...
Intanto Rosalia prosegue la sua vita con i soliti dubbi legati al matrimonio. L’arrivo di Bruno ha scosso la bellissima ragazza... e tra Nino e Bruno, la sua indecisione potrebbe portarla a non sposarsi del tutto.
La visita del padre, Don Vincenzo, riesce a regalarle un po’ di serenità.
Bellissimo...»
Giacomo Scimonelli

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