Paolo inizia a stare un po’ meglio e decidono di dimetterlo. Il Prof. però ci dice che dobbiamo portarlo a Padova, dove c’è un’ oncologa specialista in tumori cerebrali, la quale lo s eguirà per le terapie post- intervento. Lui è molto amareggiato, voleva rientrare a casa, sperava chefosse finito e, invece, l’ incubo è agli inizi. Mi ricorderò sempre della signora Lucia. Aveva il marito ricoverato nella stessa stanza di Paolo. Lui era in fase terminale. L’ ultimo intervento che aveva fatto al cervello lo aveva mandato in coma, stava malissimo e lo vegliavano in continuazione. Eppure fu così gentile da accompagnarci con la sua macchina a Padova. Era una mattina gelida di Gennaio, ma il freddo che sentivo dentro era moltopiù pungente della temperatura esterna. Arrivammo a Padova in tarda mattinata. Il viaggio fu molto lungo e faticoso. Quando entrammo nel reparto di oncologia mi si gelò il sangue. Con tristezza vidi un giovane su una sedia a rotelle che girava per i corridoi, con le flebo attaccate. Era così magro e pallido che mi angosciai ancor di più. Nella mia vita era la prima volta che entravo in un reparto di oncologia dove vedevo giovani ricoverati sottoposti a chemioterapia. Paolo teneva la testa china, quasi a volersi estraniare da quella realtà, non guardava in faccia nessuno, sentivo la sua paura. L’ oncologa ci accolse gentilmente. Fu molto attenta e lo mise in una stanza con un signore che anche se anziano e sottoposto a chemioterapia rispetto agli altri stava bene.
La dottoressa ci chiamò in privato nel suo studio senza Paolo, e ci chiese, per agire di conseguenza, cosa sapeva il ragazzo. Ci disse che la malattia di Paolo era molto grave, che essendo un tumore raro le terapie erano in via sperimentale, ma che se avesse seguito il protocollo aveva qualche possibilità. Un po’ poco, ma noi speravamo anche nella buona sorte.
Il giorno dopo iniziò la chemio. Stette malissimo, vomitava nonostante gli avessero somministrato anche l’ antivomito. La terapia era molto forte ma andava fatta. Avrei voluto stringerlo forte a me, ma mi limitavo a stringergli la mano. Lui mi scrutava, voleva capire, ma io ero sempre allegra, mai un momento di cedimento. Non me lo potevo permettere, come avrei potuto aiutarlo se mi avesse visto disperata?
Quando però ero sola e andavo via dall’ ospedale cedevo alla mia angoscia, piangevo e mi disperavo, proprio non sapevo che fare e mi ripetevo che mai mio figlio mi avrebbe visto in quelle condizioni. Lui doveva pensare che non era grave la sua malattia, non lo avrebbe accettato credo, o almeno io così credevo.
Gli fecero altri accertamenti, esami del liquor, risonanza, gli prelevarono anche il midollo per vedere se in circolo aveva ancora cellule tumorali. Lui rassegnato si sottoponeva a tutto... quanta sofferenza!
Il terzo giorno disperato mi chiese di portarlo via da lì. Convinse la dottoressa a mandarlo in permesso dopo la terapia. Lei titubante glielo concesse, si rese conto che era necessario per la sua stabilità psichica.
La notte finalmente riuscì a dormire accanto a me.
Il 13 Marzo lo dimisero. Prenotai l’ aereo lo stesso giorno e finalmente dopo due lunghissimi mesi tornavamo a casa.
Quanto tempo, quei due mesi lontani da casa. Com’ era lontano il tempo in cui eravamo una bella famiglia felice, le sue corse in bici, le gare, la sua passione, i calci al pallone, le corse in moto, la scuola, gli amici... la sua bellezza, la sua intelligenza, la sua allegria....ormai un ricordo perso nel dolore.
Anche chi era rimasto a casa aveva sofferto: i nonni, i fratelli, gli zii, i cugini. La nostra era una famiglia affiatata, unita. Li ritrovammo tutti il giorno del nostro rientro a casa.
Quanto mi erano mancati i miei figli Antonio e Fabio. Li ritrovai cambiati, cresciuti. La mia vita era cambiata, la nostra vita non era più la nostra vita. Il 17 marzo Antonio fece la Cresima. Gli preparai una piccola festicciola in famiglia. Anche se l'umore non era al massimo, non volevo che i miei figli sentissero troppo la differenza della vita che facevamo. Ma la tristezza si percepiva, rendeva l’ aria irrespirabile, mai niente sarebbe stato più come prima.
Si avvicinò il giorno della partenza, dovevamo recarci ancora a Padova per continuare il protocollo terapeutico: doveva fare il secondo ciclo di chemioterapia. Preparai tutto per la partenza ma Paolo all’ ultimo momento non volle partire. « Oddio come farò»,pensai. Dovevo convincerlo a tutti i costi a partire. Lui non volle sentire ragioni. Chiamai l’ oncologa la quale mi disse che era necessario recarci a Padova. Il protocollo era in via sperimentale e la terapia la poteva fare solo a Padova. Non sapevamo come convincerlo, lui sempre più cocciuto nel suo no. Dovemmo rimandare la partenza.