La calura porta a guardarsi l’ un l’ altro pensierosi di vuoto, le anime in catini immaginari a mordere delle nubi amorfe, code d’ oppio disegnate da una mano beffeggiante. Voglio riposare senza corpo e che trascini via anche la mente, il corpo. Voglio riposare senza me, mettere sul lenzuolo fresco un sogno al posto mio. Non ho visto la pace sussurrare dietro il denso della porta. Ma sta bussando, le nocche diventano insistenti, livide, aspre da farmi male. Le apro, voglio andare con lei su un’ altura, m’ infilo le scarpe di pezza e un cappello di paglia gualcito che riprende forma intorno alla mia testa, una medusa, guerriera triste – che cosa non darei per risollevare quanto basta, quanto l’ ora d’ aria per un colpevole alle sbarre.
Il corpo è ancora qui, dannato insulto che mi segue e spia, spera di primeggiare, di restare il solo: finirmi in un tornante mentre mi godo l’ aria fredda del bocchettone puntata dritta sull’ arteria del collo. Mi paralizza, ecco, tocco la felicità del ghiaccio, mi sto dissociando da altre me per volontà e visione cosmica. Ma il sangue insorge, uno per tutte, rivendica: esanime non andrai lontano, nessuna di voi potrà. Il peso necessario non si può lasciare sulla strada, e giuro sarà l’ unico ad avere un posto di rilievo, lo rassicuro che non ha motivo di agitarsi, ora è con me.
È la più rada, rocciosa, la più ardua questa salita - colgo già un punto all’ angolo dell’ occhio, dove finisce ogni realtà e l’ eco del torrente strappa il vociare della valle. Quasi raggiunta beatitudine, la lontananza ritrovata. Gridano inutilmente per tutto ciò che sembra esistere, ma io vedo lo scarto farsi materia, la nebbia calda fuori sul parabrezza, controllo le fessure, ché nessuna sia da tradimento alla mia ansia di librare senza tempo e costole e scandagli. Ma non ho potere, non sono l’ io indiviso che vorrei. Io sono noi, le altre sono tanto risolute, vogliono scendere. Quassù nemmeno, dove l’ universo è un docile ieri nel domani, regna l’ accordo. Mi convincono a fermare l’ auto nel mezzo del borgo, lo faccio con riluttanza – volevo un eremo celestiale – e presto indifferenza.
Sono seduta al piccolo tavolo di un bar, l’ ombra dell’ ippocastano mi protegge, gli occhiali scuri li ha inventati un angelo provato e che sia benedetto.
Degli altri vedo solo le gambe. Allegre, svelte, nervose, pervasive, conviviali. Nessun paio sembra somigliarmi. Disorientante: ho poche speranze in un’ analisi salvifica.
– Cosa prendono le signore?
Non ci credo, vorrei rispondergli che è pazzo, ma la voce si astiene dal volere.
– Ci porti due ginger rossi freddi.
– Bene, e a lei?
– Nulla grazie, sto bene così.
Sto sempre bene, soprattutto nelle astrazioni che illudono il bisogno, gli danno ossigeno e lo disperdono come una cenere sazia dell’ esistere.