Quando ci trasferimmo ad Arzano, nel settembre del 1964, alcuni colleghi di lavoro di mio padre si preoccuparono di trovarci una casa in affitto in un palazzetto situato in una traversa della strada principale. Era un appartamento a piano terra, di tre stanze, cucina e bagno, con un piccolo balcone. Dirimpetto al nostro appartamento ce n’erano due più piccoli, affittati a due famiglie diverse.
La traversa era un vicolo cieco, un cul- de- sac che finiva con un muretto che faceva una certa impressione, non dico come il muro di Berlino, ma almeno come quello di Gorizia (città che visiterò poi negli anni Ottanta), il quale divideva la città italiana dalla Nova Gorica iugoslava...
Il capofamiglia di una delle due famiglie dirimpettaie veniva soprannominato " ‘O luongo", a causa della sua notevole altezza: era un brav’uomo, che svolgeva non ricordo quale lavoro manuale, e che in passato aveva abitato anche in Umbria, a Narni, dove gli era nata una figlia, una bella ragazza alla quale, come a parecchie belle ragazze arzanesi di allora, mancava solo un po’ di istruzione.
L’altra famiglia era quella di " ‘O siciliano", chiamato così perché, pur essendo arzanese, era andato da giovane a lavorare in un porto della Sicilia occidentale, aveva lì conosciuto la moglie (che portava lo stesso nome della compagna sudamericana di Giuseppe Garibaldi), aveva avuto tre figlie (la più grande delle quali era rimasta in Sicilia, perché aveva sposato un siciliano), e poi con le altre due figlie e con la moglie era tornato, non ne ricordo il motivo, ad Arzano.
" ‘O siciliano", brava persona anche lui del resto, aveva un carattere particolare: parlava sempre a voce altissima, ostentando un dialetto siciliano così innaturalmente marcato e pieno di parole allusive da farlo subito notare da tutti (quando prendeva il bus da Napoli ad Arzano, dopo poco tempo i viaggiatori si voltavano verso di lui, attratti, non so quanto positivamente, dalla sua particolare parlantina...)
La sua terza e ultima figlia aveva quattro anni meno di me ma, precocemente sviluppata, a dieci, undici anni già pensava ai giovanotti, e mia madre si era accorta che, probabilmente spinta dalla sua genitrice "garibaldina" (una donna dagli occhi penetranti e, lo affermava lei stessa, esperta anche di arti magiche), la ragazzina aveva posato gli occhi su di me. Io non ero per niente interessato (già allora i miei gusti, in materia di donne, e non solo, erano piuttosto raffinati, alquanto - forse troppo - elitari...) , per cui si rivelò del tutto inutile la minaccia che la madre di mia madre (mia nonna era voluta restare da sola a Pomigliano, e ogni tanto mio padre la andava a prendere per farle passare una giornata da noi) mi rivolse nel suo dialetto pesarese: "Si te a t’mett sa cla malé, me an t’archnò sch piò cum nepò t! " ("Se ti metti con quella, non ti riconosco più come nipote! ")
Ebbene, un pomeriggio si sentivano delle urla nella casa di " ‘O luongo" (quando mettere insieme il pranzo con la cena diventa un’impresa ardua, le liti fra coniugi sono più frequenti) . " ‘O siciliano", ficcanaso patentato, si affacciò sul balconcino in comune e disse ripetutamente (a tutto volume e col suo irritante dialetto acquisito): "Cu fu? Cu fu? " ("Cosa è successo? ") " ‘O luongo" (non penso che fece finta di non capire) credette che il suo vicino di casa l’aveva chiamato "cafone" in siciliano, si affacciò immediatamente e gli rispose: "Cafone a me? Cafone sì ttu, ca vieni ‘e faccia all’Africa! " ("Cafone a me? Cafone sei tu, che stavi dirimpetto all’Africa! ") (L’equivoco rischiò di trasformarsi in una lite - a volte anche i Napoletani ci vanno giù duro quando si rivolgono a qualcuno più meridionale di loro! -, ma per fortuna tutto fu risolto con una faticosa ma alla fine efficace spiegazione "linguistica" del "Siciliano" ...)