Durante la mia infanzia, passata tra le pareti di un bilocale umido e scrostato, ho sofferto, quasi per una specie di legge del contrappasso, d’agorafobia. Una maledetta sensazione di paura che un soggetto prova in ambienti non familiari, comunque in ampi spazi all’ aperto o affollati, temendo di non riuscire a controllare la situazione.
Questo malessere mi ha sempre portato a sentire il bisogno epidermico di una via di fuga immediata verso qualcosa da me reputato più sicuro: la scrittura.
Quando scrivo, è l’ unico momento in cui riesco a dominare la mia angoscia.
Il motivo di tale afflizione è probabilmente dovuto al fatto che eravamo costretti a convivere in uno spazio ristretto e privo di porte.
Ho sempre cercato di dare una motivazione plausibile a questo turbamento che mi porto addosso come una seconda pelle.
Dopo anni di riflessione, sono arrivato alla conclusione che due fattori psicologici hanno condizionato il mio carattere ribelle: l’ ambiente in cui sono vissuto e, soprattutto, la peculiarità del carattere delle persone con le quali ho convissuto.
In primis mia madre, Arcinese Elena Maria Ester, detta Minervina, una donna d’ altri tempi che parlava correntemente tre lingue (il francese, l’ italiano e…. il gessano) credeva fermamente in alcuni valori fondamentali della vita, quali per esempio la sacralità della famiglia, la lealtà e, soprattutto, la sincerità.
Sono cresciuto in una famiglia dove la sopravvivenza «au jour le jour» era il Leitmotiv delle nostre discussioni quotidiane, dovute ai problemi finanziari che ci attanagliavano frequentemente.
Anche se la mancanza di denaro fungeva da barriera invalicabile alle nostre aspirazioni segrete, le nostre vite erano costellate da piccole gioie, come per esempio indossare un abito nuovo, per me era come degustare un frutto proibito.
Vivevano la nostra esistenza all’ insegna della sopravvivenza.
Per noi figli, il momento più atteso della giornata, era quello in cui nostra madre ci avrebbe raccontato le sue storie.
Ci sedevamo attorno al focolare, dove crepitava la legna, e rimanevamo rapiti dai suoi racconti legati soprattutto alla Seconda Guerra Mondiale e alla Resistenza.
Quando parlava della Resistenza, dove suo marito aveva combattuto nelle fila della Brigata Majella in qualità di Partigiano, i suoi occhi cerulei s’ illuminavano di un immenso orgoglio.
Una volta, mentre raccontava un’ impresa eroica dei Patrioti, scorsi una minuscola lacrima scivolare sul suo volto raggrinzito.
Una sera d’ inverno, mentre imperversava una tormenta di neve, mia madre ci disse una cosa che mi è rimasta nel cuore: «Vostro padre era una persona triste e malinconica, ma quando tornava a casa la sera, dopo una giornata di lavoro passata nella cava di pietre dove lavorava, e vedeva i suoi nove figli i suoi occhi s’ illuminavano di felicità! La stessa contentezza che leggevo nel suo sguardo tormentato dopo aver partecipato ad una missione militare della Banda della Majella».
Per fortuna che la televisione era un lusso che allora non potevamo permetterci, sennò non sarei mai riuscito a scrivere le storie che mia madre ci ha tramandato la sera, davanti ad un focolare dove spesso languiva una fiamma che non riuscivamo a ravvivare con nuovi tizzoni di legna.
Ventisette anni dopo la sua dipartita, avvenuta il 3 gennaio 1993 ad Ortona, in provincia di Chieti, la sua voce sibillina mi rimbomba ancora nella testa, come una scheggia impazzita, e dà un senso logico alle cose che in quei tempi mi erano purtroppo incompressibili. Anche se, come scrive Jerry Spinelli, «ogni notte ci sdraiamo in un cimitero di ricordi», lo sguardo malinconico di mio padre e la voce narrante di mia madre mi hanno sempre accompagnato e mi hanno dato spesso la forza di continuare a lottare per degli ideali giusti, seminati durante la mia adolescenza in quel bilocale, umido e scrostato, e che hanno condizionato positivamente le mie scelte di vita.