Mia madre, Elena Maria detta Minervina, mamma di nove figli e moglie di Angelo Aronne, partigiano combattente della « Brigata Majella», ha passato gli ultimi anni della sua tormentata esistenza a fare l’ uncinetto.
Si sedeva dietro al portone d’ ingresso, con pannelli in vetro e alluminio, e faceva la sticchetta, un’ arte antica, esistente ad Amardolce dagli albori del tempo e che per generazioni si è tramandata di madre in figlia.
Dopo la morte di mio papà, avvenuta il 26 gennaio 1974, mia madre iniziò a realizzare delle coperte lavorate all’ uncinetto per sopravvivere, in quanto la pensione francese tardava ad arrivare sebbene mio padre avesse lavorato in Francia per un periodo di tempo molto lungo. Anche allora la burocrazia impediva il pagamento degli emolumenti internazionali.
All’ epoca dei fatti, vivevamo ad Amardolce in mezzo a molte persone che ci amavano, ma che fingevano, forse inconsapevolmente o per falsa discrezione, d’ ignorare il nostro disagio finanziario.
Mia madre era molto fiera e non avrebbe mai permesso che la povertà, che tormentava la nostra esistenza quotidiana, fosse resa di dominio pubblico.
Minervina, donna d’ altri tempi per temperamento caratteriale, decise caparbiamente di prendere in mano la situazione drammatica piuttosto che chiedere un prestito bancario o vendere qualche bene, come la casa di proprietà dove abitavamo, che a dire il vero era al limite della decenza abitativa.
Le sue mani accarezzavano l’ uncinetto, con la delicatezza di una farfalla.
Ogni gesto era scandito sapientemente da una maestria ereditaria.
La mano importante non era quella che teneva saldamente l’ uncinetto ma quella che sosteneva il filo, sospeso in una specie di danza acrobatica, dove i volteggi delle dita assumevano il ritmo frenetico della composizione artigianale.
Minervina si sedeva fuori, sotto lo sguardo benevolo dei vicini di casa, o quando pioveva rimaneva dentro, dietro la porta d’ ingresso.
Spesso, la vedevo lavorare anche di notte mentre guardava la televisione.
Ogni suo volteggiare era cadenzato da una scansione ripetitiva istintiva, fatta propria attraverso la notte dei tempi.
Per onorare la sua memoria e per descrivere la sua attività di merlettaia, le ho dedicato «L’ uncinetto d’ avorio», una poesia che mi ha portato molta fortuna, anche se non sono mai riuscito a raffigurare in versi la danza misteriosa che le sue mani eseguivano con il filo di cotone.
Qualche mese prima di morire, mentre l’ accompagnavo all’ ospedale di Ortona, mi disse: «Sergio, ho fatto cento coperte a mano ed è anche grazie a loro se ho potuto permettermi il lusso di farti laureare!».
Nonostante le peripezie della vita che mi hanno fatto abbandonare per sempre Amardolce, conservo gelosamente il suo uncinetto nei miei cimeli familiari.
È grazie a lei se la mia laurea è impreziosita dal mistero della danza delle sue mani sul cotone bianco delle sue coperte.
Grazie mamma.