Ho imparato il dialetto napoletano come si impara talvolta una lingua straniera, con notevole ritardo e senza andare a scuola, ma (come facevano gli emigrati italiani in America cento anni fa con l’inglese) sul campo, per la strada, a forza di frequentare persone che in quel modo parlavano.
Pur essendo nato e sempre vissuto in provincia di Napoli, fino ai tredici, ai quattordici anni di età, del dialetto conoscevo solo qualche parola isolata, e non ero in grado di capire una frase completa, perché mia madre, marchigiana del nord, aveva con me sempre usato l’italiano, e mio padre aveva fatto lo stesso, essenzialmente per una forma di rispetto nei confronti di mia madre che, fino ai suoi ultimi giorni di vita, doveva fare degli sforzi enormi per comprendere i napoletanofoni, e quanto a parlare il dialetto... non ne parliamo!
Da bambino e da ragazzino, per me, le cose andarono abbastanza bene, perché vivevo in una zona della mia cittadina dove gli italofoni senz’altro prevalevano (spesso per un motivo di necessità, in quanto molti abitanti provenivano da altre parti d’Italia, e se ognuno avesse voluto usare il suo dialetto...) , considerando anche i numerosi indigeni che usavano il dialetto napoletano magari soltanto in famiglia.
Però, quando a tredici anni e mezzo mi trasferii, con i miei genitori, in un comune confinante con Napoli, la faccenda cominciò a complicarsi: molti adulti parlavano con naturalezza il dialetto nelle loro relazioni sociali, ed i ragazzi come me usavano l’italiano, con un certo sforzo, soltanto a scuola, durante le interrogazioni e nelle conversazioni coi professori.
Dovetti giocoforza darmi da fare per imparare a capire il dialetto (anche se non in tutte le sue più recondite sfumature), ma l’ho parlato, con grandi difficoltà e con poco piacere, solo assai raramente, nei casi di assoluta necessità. Quel mio "difetto", a pensarci bene ora, mi privò di tanti approfonditi rapporti umani con i miei compagni: essi avvenivano spesso soltanto a livello superficiale, perché ho l’impressione che la mia abitudine di parlare l’italiano venisse da parecchi amici considerata come una modalità da me adottata per marcare una distanza, una superiorità (proprio da me, che ero quasi sempre più povero di loro, materialmente e forse anche spiritualmente...)
All’Università, poi, finalmente mi trovai a mio agio, giacché c’erano tante ragazze (le donne sono spesso propense a parlare l’italiano, anche se talvolta lo usano come un trucco fra tanti per apparire più belle, distinte e interessanti) e parecchi giovanotti che provenivano da varie regioni d’Italia, del Sud, ma a volte anche del Centro- Nord.
Pensavo, da insegnante, di potermi esprimere senza problemi nella lingua nazionale, ma dovetti constatare che, soprattutto nei primi anni di insegnamento, in paesini del Casertano, i colleghi che usavano spesso e volentieri il dialetto con gli alunni ottenevano più successo, risultavano più simpatici e si facevano comprendere meglio...
La mia condizione linguistica, nel Napoletano, è probabilmente stata sempre alquanto simile a quella di un Castigliano a Barcellona, di un Russo a Kiev, o di qualunque Italiano in Alto Adige... Ma non è raro che una persona che non parla che maldestramente il dialetto del luogo riesca poi a scriverlo meglio di coloro che lo posseggono come madrelingua, perché costoro, sicuri della loro lingua materna, non si preoccupano troppo dell’origine delle parole e pensano spesso che esse si scrivano più o meno come si pronunciano: io, proprio a causa della mia ignoranza orale, mi misi un po’ a studiare il dialetto, e non esagero se affermo di saperlo ora scrivere meglio, a volte molto meglio, di chi è nato con quella parlata in bocca...
In Francia l’ormai plurisecolare legge che mise al bando i numerosi dialetti fino ad allora presenti in tutto il territorio nazionale è stata non poche volte criticata, vista quasi come una misura contraria alla libertà di espressione. Però non si può negare che, se i Francesi si sentono da moltissimo tempo appartenenti a un’unica e compatta nazione, ben più di noi Italiani, ciò deve essere attribuito anche all’unicità (o quasi) del linguaggio da essi adoperato.
Sono favorevole alla sopravvivenza dei dialetti, che spesso riescono a veicolare le nostre tradizioni meglio della lingua nazionale, purché non si trasformino di proposito in "codici segreti", in strumenti per cercare di escludere alcuni individui da un gruppo: "Il dialetto [ talvolta ] è un biglietto di visita, un lasciapassare, il marchio di una gerarchia di status, di una ‘autorevole’ diversità", scriveva Gian Paolo Caprettini alla voce "Dialetto" dell’ "Enciclopedia Einaudi" .