Quando il treno entrò alla stazione Termini, Marco, si sentì vecchio.
Era come se ci si potesse specchiare, nel murales che accompagnava il binario 17, e poteva vedere che era invecchiato.
Una volta viaggiava in pullman, quando era ancora uno studentello, con le converse rosse stracciate ai lati, le chiavi attaccate ai jeans con un moschettone nero, la borsa del computer appoggiata sulla valigia, le cuffie che gli urlavano i Clash nelle orecchie e la lucky strike fumante in bocca. Il cellulare. Il cellulare lo aveva, in tasca, ma non era importante. Aspettava il suo pullman a Castro Pretorio, e partiva. Le altre volte, invece, aspettava di riprendere la sua valigia dal pullman a Castro Pretorio, e tornava.
Quando il treno entrò alla stazione Termini, Marta, si sentì vecchia.
Era come se ci si potesse specchiare, nel murales che accompagnava il binario 16, e poteva vedere che era invecchiata.
Una volta viaggiava in pullman, quando era ancora una studentella e viaggiava con Angelo, Carmela, Caterina, Daniela, Chicca. Non era mai sola, quasi mai. E quando lo era si sedeva poco distante dall’autista, lo ascoltava parlare per un po’, ridendo silenziosamente ma con la nascosta intenzione di farsi sentire, guardandolo provocatoriamente negli occhi attraverso lo specchietto. Poi avrebbe iniziato a polemizzare, per 3 ore, sull’importanza della donna in questo mondo, su come far girare quest’economia, sulla dignità che spetta a un uomo che lavora, su quanto ancora sia importante la politica, oggi più che mai. Non era mai da sola, quasi mai, eppure lo era sempre.
Rallentava, il treno di Marco entrando alla stazione, tutti già in piedi a rimettere i cappotti e lui seduto, a godersi quel ritorno.
Erano passati quattro anni, quasi cinque a dire il vero, da quando viaggiava in pullman che era ancora uno studente che non aveva nemmeno poi tanta fretta di sapere cosa gli avrebbe riservato il futuro.
“Io non ho nessuna intenzione di andare via da Roma”, diceva.
E invece, dopo la specialistica per qualche ragione che non conta conoscere, finisce a fare uno stage biennale a Bruxelles.
Ci pensa scendendo dal treno, e sorride, “però lo vedi che sono tornato?”.
Rallentava, il treno di Marta entrando alla stazione, lei era già nello spazio tra le carrozze, ansiosa di rimettere piede nella grande città che ha scelto il suo destino.
Erano passati quasi cinque anni, da quando aveva giurato “Addio Roma, questo è l’ultimo treno.”
Lo diceva sempre anche allora, l’avrà detto almeno 8 milioni di volte nei cinque anni dei suoi studi: “Io, qui, non ci rimango manco morta!”.
Credeva che il futuro e il destino fossero la stessa persona: esattamente, lei.
L’ha detto e l’ha fatto, anche se è comunque finita fuori dai confini dei suoi progetti.
“Vivrò in Toscana, lo so, al massimo in qualche cittadella emiliana, camminerò sempre a piedi e il mio lavoro sarà tra i libri”, diceva.
E invece ha vissuto due anni a San Marino, ma camminando sempre a piedi e con un lavoro immerso tra i libri.
Ci pensa, balzando sul corridoio del binario 16, “Questo ritorno non significa niente, chiaro?!”.
Ai piedi del treno Marco si ferma un attimo, mentre la massa frenetica gli passa accanto superandolo, lui sembra un effetto di un film di Tornatore, quello che scorre lento, la trama portante che alla fine ti ritrovi a scoprire quanto in realtà non sia cambiato, nonostante l’ingannevole e mutevole intorno. Si accende la sua lucky strike proprio sotto il cartello del divieto, e s’incammina a fare il biglietto per la metro b.
Una volta non lo faceva il biglietto, sul suo autobus, i controllori non salivano mai.
Scesa dal treno, Marta sa esattamente dove andare, cammina veloce verso l’edicolante alla fine del binario, quello dove comprava i dylan dog quelle rarissime volte che viaggiava in treno verso Napoli. Quando lo vede gli sorride come fosse un vecchio amico, felice di ritrovarlo ancora lì, come se il tempo, in quella stazione, non fosse mai passato. Compra un dylan dog, il Fatto e due biglietti.
“Il solito” dice, ma quello non capisce. D’istinto, prende la scala mobile per la metro b, salvo poi accorgersi a metà che non era la studentella diretta alla stazione tiburtina, e pretende di risalire la scala, tra gli sbuffi e gli sguardi omicidi degli altri.
Marco lascia cadere la sigaretta e s’incammina verso la scala mobile per la metro b, nemmeno fa in tempo a salirci che incrocia una donna che la stava risalendo al contrario. “Scusi” gli dice. Lui pensa che sono sempre stati tutti un po’ esauriti in questa città.
Marco ha preso una stanza in un B&B, anche se avrebbe potuto richiamare vecchi amici che ancora qualche volta sente, allegramente.
Ma è un Acquario, e ha bisogno dei suoi spazi, è indipendente, lui basta a sé stesso. Li richiamerà domani magari, dipende dal colloquio la mattina. Anzi no, non dipende! Li richiamerà perché una birra in compagnia ancora sta bene alla fine di qualsiasi giornata.
Marta è venuta un giorno prima, adora essere in anticipo, anche se gli intimissimi amici non l’hanno mai capito e le dicono che è una donna programmata. Marta è una capricorno, solitaria, per prendere possesso della sua vita ha bisogno di stare da sola, e ci sta benissimo. Arriva in anticipo agli appuntamenti almeno di mezzora, ma non per passeggiare ansiosamente avanti e indietro, per osservare e per avere il suo momento intimo con la sigaretta. Ha sempre amato fumare in compagnia, ma quello è un altro sapore, confuso. E’ come se il fumo, mischiato alle sue parole e alle risate, finisse per appartenere ai polmoni di tutti. Ricorda ancora le sigarette nascoste dei suoi 13 anni, sola, nel garage sotto casa, prima di raggiungere le amiche. A differenza di loro lei ha iniziato a fumare per questo, per avere il suo momento, con la sua sigaretta.
Domani, chiamerà quei quattro amici che ha lasciato qui due anni fa, convinta che li avrebbe persi. Non immaginando che, invece, si sarebbero visti almeno una volta al mese. Non immaginando che, invece, avrebbe condiviso con loro, proprio in quegli anni, le più belle estati della sua vita.
Sono le 20, e Marco ha quasi già fame. Si è sistemato nella sua stanza al B&B ed è quasi deciso a scendere per misurare l’effetto di un passeggio per quella strada, dopo anni. Quando ha prenotato non ci ha fatto caso. Era una traversa della strada dove per un anno aveva vissuto il suo migliore amico, Stefano. Era una traversa della strada dove aveva vissuto Marta.
Marta.
Sono le 20, e Marta vuole assolutamente raggiungere il bar nella piazza alla fine della strada dove abitava. Ha preso appositamente l’autobus sbagliato, per fare il giro in lungo e passeggiare la sua strada, lentamente, sola, senza nemmeno il lettore, osservando le persone, fantasticando sulle loro vite, come la sua vecchia adorata abitudine. Passando sotto la sua vecchia casa non vuole guardare, non vuole immaginare un’altra vita ad alitare sulle sue adorate pareti, ma la coda dell’occhio non puo’ fare a meno di notare quella finestra illuminata. Affretta il passo, e raggiunge il bar.
Ricorda una nottata improvvisata con Sù, l’Amica. Ricorda che quella sera non aveva deciso di uscire, perché Roma, come spesso capitava, paradossalmente le stava stretta. Chattando con Sù decisero di fare a gara a chi prima avesse raggiunto l’Irish Pub, dall’altro lato della piazza. Quindi scese, con i calzini spaiati, un cappello color fango e una sciarpa azzurro acceso. Sù, vedendola, rise, ma arrivò dopo di lei. Parlando fecero mattina, e salutandola Marta aveva l’impressione che fossero passati solo dieci minuti. Succedeva sempre: a un certo punto dovevano trovare un blocco esterno alle loro divagazioni, altrimenti sarebbero morte così, ignorando i loro bisogni fisici. Sù, era l’unica autorizzata a sfondare il muro solitario del Capricorno. Anche Sù, era una Capricorno. La gente si spaventa, quando una persona sta bene in sua propria compagnia, inizia a comportarsi da esclusa, impotente, offesa della capacità della persona di poter fare a meno di loro. Ma loro due non avevano mai avuto bisogno di spiegarselo. Lo sapevano come se veramente fosse un requisito del dna dei capricorno. I loro momenti solitari non erano indipendenza pura. Neanche in quei momenti bastavano a sé stesse, ma erano abbastanza forti da saperlo fare, da volerlo fare. Erano esercizio, prova. Come un pc che fa l’aggiornamento e rimette le cose al loro posto, ne valuta il peso in memoria, segnala i programmi in disuso, i file danneggiati, le tane dei virus … “wait! mi sto ricostruendo”. E sì, questo comporta il rischio di molti legami, quelli che non accettano di restare “fuori”. E sì, per questo ne hanno persi molti.
diceva Marta.
diceva Su, intendendo di non biasimare chi non riusciva a capire, e andava via.
Marta è seduta al tavolino rosso fuori al bar, osserva tre ragazze brindare con la tequila ad un esame, e accarezza un cane bianco che piange perché il padrone lo ha legato fuori per entrare a bere.
Le sembra un dejavù.
E’ un dejavù,
Marco ha sentito una frenesia improvvisa, che gli ha accelerato il senso di fame nello stomaco, anzi gli sembrava di poterla sentire anche nella testa e nei polmoni e nelle gambe, la fame.
Mette il cappotto in fretta, prende sigarette, accendino, chiavi, portafogli, cellulare e va verso la porta. La apre, si tasta le tasche “sigarette,accendino,chiavi,portafogli,cellulare”, la richiude dietro di se, scende le scale di corsa per iniziare a sfamare le gambe, ed è in strada. Destra, sinistra,poi decide di scendere verso la piazza.
Le ragazze che bevono tequila la guardano e ridono sonoramente.
Marta è assorta, completamente, ha una mano nel vuoto come se sotto ci fosse ancora la testa del cane, e la sigaretta ormai spenta nell’altra.
Il ricordo di Marco aveva avuto effetti collaterali. E’ incredibile quanto siamo arbitri dei nostri ricordi: ci prendiamo il diritto di ricordare solo un pezzo, la risata e non la battuta, la persona e non il motivo. Ricordare Marco l’aveva costretta a rivedere il ricordo di quella sera con Sù, quando la loro storia era finita da poco più di una settimana, anzi, lui l’aveva lasciata da poco più di una settimana.
Anche se nei loro lunghi discorsi ci fu solo un breve accenno :
“Sei sicura che ti va l’Irish Pub?” (Su alludeva alla possibilità di incontrarlo lì).
“Tanto non è uscito.” (Marta lo conosceva ancora bene).
E fu felice quella sera, ricorda di non averci pensato fino a mattina, e di aver dormito bene, quella notte.
Le sue labbra fanno la forma di un sorriso, le ragazze del tavolo accanto se ne fanno un’altra “sperando di non diventare come quella lì” e Marta, che le ha sentite, torna un attimo sulla terra per sussurrare da radical-chic “non c’è pericolo”.
Improvvisamente, le è chiarissimo il motivo per cui non ha perso Sù in questi due anni.
Lei che aveva il permesso di starle accanto nei momenti solitari.
Ricorda la consapevolezza di quelle “felicità rubate”, quando sapeva che la crisi sarebbe arrivata, che non poteva averla digerita così facilmente, quell’atmosfera insopportabile da “aria prima dell’uragano” , la perdita da cui ancora cercava di proteggersi, il lutto che ancora non voleva ammettere, il caldo del nero del mascara attaccato alle ciglia.
Marco l’aveva lasciata, e se ne accorgeva lentamente nelle cose più stupide, come un mercoledì sera in cui Roma le stava stretta e non poteva invaderlo con la scusa di un aperitivo per respirare un po’ di aria buona tra i tavoli del New Age.
Il pomeriggio precedente, con Sù, avevano camminato almeno 4 ore, e Marta aveva bevuto un litro d’acqua e speso un patrimonio in libri. Avevano parlato di Fabio. Sù poteva riconoscere il buio preannunciato in questi flash-back troppo lontani, il vuoto che non si riempiva con un litro d’acqua.
A una solitaria non si chiedono conferme, Sù lo sa bene, senza temere, né pretendere.
Non le si chiede di restare, né di poterla seguire, Sù lo sa bene, e aspetta.
Inutile e oltretutto dannoso offrire un buon riflesso nello specchio di chi non riesce a vedere niente, riflettendosi.
Inutile andare a cercare nel mondo chi è perso in un dolore esclusivamente suo.
Marta prende il cellulare e invia a Sù lo stesso sms che inviò quella sera che arrivò per prima all’Irish: .
In quel momento alzando gli occhi, le sembrò di vedere un fantasma, all’altro angolo della piazza girare verso l’Irish, con una Lucky Strike tra le mani.
Marco si era fermato a metà strada, per accendere una Lucky Strike, e aveva proseguito dritto verso quell’ Irish Pub che gli piaceva tanto. Erano anni che non pensava a Marta, ma stasera, voltando l'angolo della piazza verso l'Irish con una Lucky Strinke tra le mani, stasera come mai prima, gli sarebbe piaciuto riderle accanto, con una birra tra le mani.