Nella scuola in cui prestai servizio per più di vent’anni, fino al pensionamento, c’era l’abitudine, un paio di volte all’anno, di prenotare un pullman e andare a fare (soltanto gli insegnanti che aderivano, e talvolta anche una parte del personale non docente) una bella mangiata fuori. All’inizio del nuovo secolo ci avventurammo nella Costiera amalfitana, dove, in un panoramico ristorante a picco sul mare, un paio di colleghi avevano prenotato il pranzo, il cui menu non era stato ben pubblicizzato.
Dopo gli antipasti, i camerieri cominciarono a portare i primi, con un po’ di lentezza e servendo giustamente dapprima le (tante) signore. Vedevo, nei piatti delle colleghe vicine a me, uno strano sugo che accompagnava della pasta corta: insieme alle verdure, si intravvedeva uno strato biancastro e grasso. "E’ panna! ", pensai, e mi proposi, nonostante la mia preferenza, allora, per i primi piatti, di fare, per educazione, soltanto un assaggino, perché sono assolutamente refrattario a quell’ingrediente.
Davanti a me vedevo la faccia contrariata di un mio collega già piuttosto anziano (un biologo che insegnava Matematica e Scienze, e che era entrato nella scuola soltanto attorno ai quarant’anni di età, dato che il suo lavoro di analista di laboratorio restava sempre precario): fu servito prima di me. "E’ panna? ", domandò al cameriere e, alla sua risposta affermativa, disse: "Grazie, ma portate pure indietro il piatto! " Il cameriere ci rimase un po’ male, e aggiunse: "Se non vi piace, possiamo preparare un’altra cosa! " "Dato che siete così gentile, allora potrei avere un piatto di spaghetti alle vongole veraci? ", disse il collega. Era musica per le mie orecchie e, prima che il cameriere se ne andasse, vincendo la mia timidezza gli ordinai anch’io quel classico primo napoletano.
I due piatti alle vongole veraci arrivarono quando le colleghe e i colleghi avevano ormai finito di mangiare (più d’una o d’uno ben celando la loro insoddisfazione, se non addirittura il loro disgusto) le paste corte con panna e verdure, e noi due ci dedicammo con enorme piacere a quegli spaghetti, palesemente ammirati dalle colleghe e dai colleghi, che evidentemente pensarono: "Ah, se avessi avuto anch’io quel coraggio! "
Nei luoghi turistici italiani è secolare l’abitudine di servire anche ai connazionali dei piatti adattati al (presunto) gusto dei turisti stranieri (soprattutto angloamericani e tedeschi) . Il primo testimone di questo intollerabile andazzo fu forse quel romagnolo che aveva "risciacquato i panni in Arno" meglio di Alessandro Manzoni, Pellegrino Artusi, che nella ricetta 644 del suo famoso libro "La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene", del 1891, scriveva: "A Pompei, entrato con un mio compagno di viaggio in un ristorante in cui ci aveva preceduto una comitiva di tedeschi, uomini e donne, ci fu servito il medesimo trattamento di loro. Venuto il padrone a chiederci gentilmente se noi eravamo rimasti contenti, io mi permisi di fargli qualche osservazione sullo sbrodolio nauseoso dei condimenti ed ei mi rispose: ‘ Bisogna bene che la nostra cucina appaghi il gusto di questi signori forestieri, essendo quelli che ci danno il guadagno. ‘ " E, cento anni dopo l’Artusi, io ebbi praticamente la sua stessa sventura in un centrale ristorante di Sorrento (a Capri mi feci più furbo: dopo un’iniziale esperienza negativa vicino al porticciolo, la seconda volta m’inoltrai in uno dei punti più sperduti, per quanto fu possinile, dell’isoletta, dove fui trattato benissimo, pagando, fra l’altro, poco) .
Il personale dei ristoranti "turistici" viene, secondo me, già indottrinato dagli insegnanti degli Istituti alberghieri. Ebbi una volta l’occasione di visitare quello di Ottaviano, alle pendici del Vesuvio (c’era, negli ultimi anni Ottanta, un pranzo per professori di Lingue, tra i quali era presente anche il simpatico ed allora famoso Thomas Frank, britannico, illustre docente d’inglese a Napoli, alla "Federico Secondo") : gli studenti di quell’Istituto, ammaestrati, è chiaro, dai loro docenti, ci servirono un pranzo alquanto standardizzato, che si sarebbe potuto preparare benissimo anche al di là dell’oceano, e ciò che mi diede forse più fastidio fu la presenza fissa dietro di me di uno studente- cameriere (e tanti altri erano quelli dietro tutti i commensali, naturalmente), il cui unico compito era quello di precipitarsi a riempirmi il bicchiere di vino anche se avevo fatto un solo sorso, nonostante la bottiglia fosse chiaramente davanti a me e io non fossi paralizzato...
A cosa serve tutto questo se i turisti "veri" vengono in Italia (come vanno in tutto il mondo, del resto; ah, potessi riassaporare il "bacalhau" di Lisbona cucinato in cento modi diversi, la "sopa de mariscos" di Cascais o il "consommé de poissons" di Biarritz, la vera "salade niç oise" mangiata in Provenza, la "pizza à l’oignon" di qualche localino di Parigi!) per ammirare l’arte locale in tutte le sue forme e manifestazioni, anche in quella culinaria? Basta non arrivare a certi estremismi regionalistici che non piacciono neppure agli altri Italiani: una volta un Pisano verace, il consuocero di un mio zio, insistette per versarmi un bicchiere di vino nel brodo (era inverno), facendomi poi stare male tutta la notte...
Ma i turisti, in maggior parte, mi potrà obiettare qualcuno, sono incolti, e vengono da noi pretendendo di essere trattati come a casa loro. Beh, questi turisti farebbero meglio a rimanerci davvero, a casa loro, ma se proprio debbono venire ci sono abbastanza "Mc Donald’s " per soddisfare le loro esigenze!