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“ Qualunque storia è destinata a durare nel tempo, quando gli si rivolge ogni cura ogni bene, ogni meglio.” LA NONNA Un pensiero mi tormenta ogni mattina pensando a quanto ha lavorato mia nonna per quanto mi racconta nel fare la passeggiata mi racconta così chiaro che mi sembra di rivederla nel tempo trascorso e negli anni i suoi ricordi, come sempre da bambino sono il momento più dolce della passeggiata. Fino a che giunge un po’ stanca sul posto, specie, in primavera che ormai è già caldo si siede su una roccia e continua a raccontare: La chiesetta del sagrato, le sembra il nonno vecchio disteso, che parla al maestrale e agli altri venti lo rivede forte e coraggioso come forse sino a trent’ anni fa un gigante dal cuore dolce e il carattere di ferro. Da ragazzi, si nascondevano dietro l’ erba a ridosso della chiesetta, e per lei, sono rimasti come allora nel medesimo posto innamorati come il primo giorno, a quei dolcissimi baci. La chiesetta, un peccato della natura, oramai è cadente Da trent’ anni almeno, non ci entra più neanche il fumo. E lei invece si ricorda del pane di Pasqua, bella come il sole, e con l’ abito nuovo tutto da lei stessa con amore ricamato che scappava da casa per incontrarsi con il nonno, sapendo benissimo che al rientro avrebbe ricevuto sonori ceffoni, ma per quegli attimi di intensa felicità, per poter gustare quel dolcissimo boccone di pane con il suo grande amore per la vita, avrebbe sopportato anche il doppio di quelle solenni carezze. Le sue parole mi incantano ancora, mi fanno vedere mia nonna quando risistemava la vecchia stalla, danneggiata dalle tempeste era lei e soltanto lei li la padrona, la signora del tempo che accudiva tutti gli ospiti alloggiati, e non bastava quando c’ era qualche animale che stava male, se lo portava a casa per accudirlo al meglio, e dopo due o tre giorni con lei tornavano a correre anche i capretti più malaticci, la seguivano ovunque andasse, erano sotto le sue innumerevoli gonne, le venivano dietro anche nel balcone, anzi era il loro alloggio per farle le feste Quante domeniche ad aspettare il marito affaccendato nei lavori dei campi, intenta a rattoppare i pantaloni di fustagno, con i capretti sdraiati al suo fianco in dolcissima adorazione. Ora aveva un attimo di pausa, ma aveva già pitturato il suo “ cancello” di olivastro, messo in credenza due infornate di “ Fresa lenta”, e sul tavolo senza neppure assaggiar niente di tutte quelle prelibatezze, aspettavano insieme il ritorno dell’ uomo dai campi, un vassoio contenente il timballo di riso, una teglia con metà maialetto arrosto, un altro vassoio con melanzane, zucchine peperoni, e patate e cipolle alla griglia, un’altra teglia aspettava ancora al caldo lento e tiepido del forno a legna, e conteneva dolcissime squisite ciambelle. Sulla porta del forno, un cumulo di cenere, ricavata dalla pulizia dello stesso per ospitare il santo pane quotidiano, e sotto questa ancora calda, ma non troppo cenere tanto per non stare a guardare il cielo, aveva ben custodito quattro o cinque cipolle belle e grandi e altrettante belle e grandi patate, sapori difficilmente rintracciabili in rinomati ristoranti anche a cinque e sei stelle, tutte insieme aspettavano il padrone della casa di altri tempi, dove regnavano rispetto, affetto nel senso più pieno del termine, devozione, stima, venerazione e adorazione che il tempo non ha mai cancellato e mutato una virgola. E già pensava ai lavori da riiniziare al lunedì. Come sempre c’ era il pavimento alla veneziana, che era l’ invidia delle sue comari e amiche di tante giornate trascorse fra campi di grano da mietere, giornate trascorse ad estirpare le erbacce e la gramigna dai filari della vigna, ma quel pavimento per lei che ormai lo sapeva trattare alla perfezione con cere antiche, e con le sue mani d’ oro e sapienti, si divertiva, e questo faceva ancor più meraviglia sulle comari, che a loro volta, avevano sempre da borbottare e temevano come la peste che arrivasse la giornata scelta per questi duri lavori, lei furba, furba, e zitta, zitta, invece aveva trovato nell’ amore per tutto quello che si faceva per la propria abitazione, la forza necessaria e il magico segreto dell’ amore di non tirarsi indietro nelle faccende necessarie e quella spensieratezza, quella gioia che non riusciva a contenere e a nascondere, era la sua carta vincente in tutte le situazioni che potevano essere anche di una certa difficoltà lei ne usciva sempre più bella, graziosa e vincente, a dispetto di tutte le sorti. Il nonno, al rientro dal duro lavoro dei campi, l’ abbracciava, e lei non si scansava al suo abbigliamento coperto di polvere sudore…. Stava bene a quell’ abbraccio, e se poteva se lo stringeva più forte al cuore, certamente non sapeva parlare, aveva la terza elementare, ma sapeva benissimo ciò che piaceva al suo uomo al rientro da una faticosissima giornata senza tregua, e poi, già da sempre non aveva mai usato la carta di tirarsi indietro al momento dello scambio degli affetti, era una donna calda e umile che parlava con il cuore e con il suo daffare. Aveva mio nonno, che era un gigante d’ uomo, era alto un metro e novantacinque, e pesava i suoi buoni cento venti chili, ma sapeva benissimo leggerle negli occhi, e non aspettava di certo che lui domandasse qualsiasi cosa, lei era sempre li al suo fianco e sapeva attenderlo come neanche una madre. Ma oramai, anche il marito, dopo quasi cinquant’ anni che stavano insieme, nella sua anima di uomo di campagna, che aveva frequentato soltanto e a dir suo, per fortuna, l’ Università della Strada, non si tirava indietro per aiutarla in tutte le faccende domestiche, e non si preoccupava neanche delle prese per i fondelli dei suoi amici e collaboratori, che erano soliti nelle lunghe giornate d’ inverno, quando i campi ed il grano riposano in santa pace, ritrovarsi nella casa dei nonni per una sana partitina a carte. Sana partitina a carte a chi vinceva spettava un bicchiere di vino, a chi non vinceva spettava un mezzo bicchiere di vino e le donne li a ripetere se non si stava approfittando un po’ con il Cannonau. Ma in quelle occasioni i compari iniziavano in sordina in sordina, a canzonarlo e sbeffeggiarlo come un uomo con la gonnella, anche lui, furbo, furbo, e zitto, zitto, se ne stava zitto come un pesce, o altre volte se era molto contento dell’ andamento della giornata, cambiava subito argomento inducendoli a parlare d’ altro, perché poi, con la moglie, sotto le lenzuola la notte doveva andarci lui, e non gli altri che tentavano in tutte le maniere forti o meno forti, comunque la maggior parte dei contadini erano più che invidiosi dell’ affiatamento dei miei nonni, e qualcuno diceva anche che spesso, erano le loro mogli che preparavano i mariti a quei momenti per mettere un po di pepe in quella relazione che durava a tutte le intemperie. Anche la nonna era così contenta del nonno, nel bene e nel male e non si tirava indietro quando il nonno, faceva la trebbiatura. Lei, aveva l’ incarico di condurre le bestie all’ abbeveratoio, poi accompagnava nel recinto le mucche, e sempre a piedi, portava la biada al recinto dei vitelli. Senz’ altro, tanti di voi, neanche crederete a queste mie umili e sincere parole, quando non si vede quanto io ora vi descrivo, non crederà neanche allo sconforto e alla malinconia che mi sta riempendo il cuore. Ora mi siedo anch’ io, sulla soglia della chiesetta rustica, mi fermo un po’ ad osservare nel cassetto dei ricordi, cercando di ricordare bene o male, invoco per un po’ Dio, la forza di ricordare per potervi raccontare. Ricordo, la porta d’ ingresso è di castagno di Tonara, con gli occhi chiusi, dentro cerco di rivedere la camera d’ ingresso quel pavimento alla veneziana è rimasto solo, da quando la nonna è rimasta sola, ci tiene compagnia, e con il lavoro e gli impegni non si riesce più a trovare neanche il tempo necessario per fare respirare quella casa almeno un po’. Oramai è una casa senza suppellettili, ne persone, gli unici ospiti sono un venticello, un nido di formiche, che approfittano della situazione e girano in lungo ed in largo, ma almeno loro occupano degnamente quella casa così piena di ricordi, che se li cerco, non trovo più neanche l’ ombra. Rivedo la vecchia cucina, con il fornello a carbone, l’ armadio a muro oramai con gli sportelli penzoloni, c’è ancora il tavolo, le sedie, la vecchia credenza tarlata. Il caminetto, sporco di fuliggine, e tutti gli utensili, la paletta con il soffietto. Rivedo la camera da letto, un comodino, quel vecchio letto col materasso di crine, lo specchio e il lavamani con ancora quel sapone fatto in casa. Ora quella casa, è completamente vuota, la nonna da donna saggia, ha spartito tutto alle innumerevoli nuore. Tutto è qui nella mia mente, con i ricordi degli anni passati Ma capisco e accetto, perchè ogni cosa nel mondo cambia. Attaccato a tanti ricordi mi accingo a visitare il vecchio mulino perché in un cantuccio, avevo conservato un fiasco impagliato, accanto al cassone del grano, con uno sportello bloccato, che per pura curiosità, mi ero intestardito, e quando dopo tanto inutile lavoro sono riuscito ad aprirlo, mi è caduto fra le mani, l’ ultimo chicco di grano che vi era rimasto. E quell’ umile chicco, ora mi ricorda quanta farina mi è passata fra le mani, e con quanta cura bisognava chiudere quei contenitori, per evitare che i topi che circolavano di già tranquillamente, in quel regno, tra setaccio, assi per lo scivolo e i canestri, che un giorno forse pieno di immensa tristezza adesso non ne ricordo il motivo, ma ho l’ ombra di quel ricordo, avevo desiderato di essere topo anch’ io, per regnare in quell’ abbondanza delle nostre riserve. E qui, nel vecchio mulino la nonna ci ospitava tutte le domeniche e tutti i giorni di festa le abbiamo trascorse qui, con i nonni, io ero il più piccolo della famiglia, composta da babbo e mamma, e a seguire sei fratelli e sette sorelle io l’ ultimo nato ero la peste e comunque il più coccolato e viziato di tutti. Abitavamo in un borgo di duecento persone, erano più gli animali che ci circondavano e che conducevamo al pascolo o ai lavori con le zappette del grano in spalla, li incitavo per sentirmi un po più grande ma guardando il calendario e guardando la mia età, non avevo neanche sei anni, ma come uscivo da scuola, correvo dalla nonna per recarci insieme ai campi del nonno, o ad accompagnare il bestiame al pascolo oltre la vallata del mulino, così non era un obbligo ma piaceva a me dare una mano a quella banda di lavoratori. Ripeto volevo diventare grande in fretta per lavorare insieme a loro. Il nostro borgo, era composto da un centinaio di famiglie, quattro traverse di percorso e una grande piazza al centro dove si trascorrevano le serate al fresco, seduti tutti accanto in quelle notti di agosto e settembre, i piccoli dai due anni ai sedici anni seduti sul selciato con i pantaloni corti e quasi sempre rattoppati dalle mani esperte delle mamme. I piedi da sempre scalzi ci divertivamo ad ascoltare gli anziani, che si sbizzarrivano a raccontare a gara le storie più fantastiche e affascinanti e nessuno di noi fiatava, o perdeva una sola parola, non era certo piacevole quando alle dieci e mezza, la mamma con sguardo dolce e severo ci invitava ad andare a letto. Ma sapevamo che era inutile insistere e prendevamo i pochi bagagli, una fionda, un rotolo di spago che poteva servire in campagna, e a malincuore facevamo il giro per dare il bacio della buonanotte a tutti i partecipanti alla riunione. I grandi terminavano le storie quasi subito, l’ ho capito soltanto un po’ più in là nel tempo, quelle erano storie inventate soltanto per incuriosire intrattenere e preparare un po di sereno nel nostro cuore Anche loro oramai erano stanchi e un’altra giornata di duro lavoro li attendeva, però ricordo bene che nessuno nel borgo chiudeva la porta di casa la notte, e l’ indomani mattina erano uno spettacolo le donne dopo aver preparato la colazione agli uomini per recarsi al lavoro, prendevano scope e piccoli badili per raccogliere la polvere dalle strade scopavano e parlavano del più e del meno di quello che si aveva in programma per il pranzo. Ma ora aprendo gli occhi, non vedo più di queste sane e buone abitudini il minimo segnale. Che dolce ricordo mi resta della domenica passata li dalla nonna. Una tavolata di quaranta e più persone, tutte belle e felici sorridenti di quel niente che stare insieme, gente umile laboriosa abituata alla fatica e al non lamentarsi se non era necessario. La nonna cucinava, ai fornelli ho visto sempre e soltanto lei, le mamme servivano sempre con un bel sorriso, quanti bei piatti di ravioli, di formaggio o di ricotta erano una specialità della nonna, tuttora la mamma li prepara ma non sono mai così buoni come quelli che faceva la nonna in quelle domeniche. Ora due lacrimoni mi rigano il volto e decido di terminare il mio giro del mulino, vedo qua e là altri attrezzi, del nonno, appesi come quando li ha lasciati lui, tutto il corredo dei buoi, la vecchia imballatrice e poco più sotto, una tagliola che io detestavo, e con mille raggiri riuscivo quasi sempre a disarmare, salvando dalla cattura le povere lepri. Appese anche le vecchie scarpe rotte dal lavoro del nonno, che sempre si aggiustava con amore, appese al giogo rovinato, che non ha più l’ aggancio del carro, quante volte ho agganciato l’ arnese per domare i buoi, il tutto immerso in questo groviglio di tristezza e di ricordi. Scorrono nell’ anima i sogni, scorrono svegli, insieme ai sentimenti li sento si aggrappano alle spalle sono pesanti e si inseguono con gli amori passati nel cuore e li rimasti. Tutti i sogni di una vita tornano nel tempo d’ estate, dapprima gioiosi e poi si amareggiano e quasi non si riconoscono, allora avevano tutto quello che un sogno può pretendere dalla vita amore, affetto, baci e carezze da riempirne bisacce perché in troppo pieno stava il mio cuore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.
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«Mia nonna, ha la capacità di farmi sorridere, sempre ha mille sorrisi
da donarmi, quale indicazione migliore del suo amore.
Mi sorride, per stringere più forte le sue mani e mi sorride, con
tutta la dolcezza del mondo, con sorrisi così intensi che mi fa star bene.
Mi sorride, quando vuole che sfiori il suo cuore, ha dolcezza
nell’insegnarmi ad amarla. Cerca sempre di migliorarmi, e mi colora
anche il buio per dirmi che per sempre nel suo cuore, ci sarà per
sempre un posto per me.
Tonino Fadda» |
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