Michele il flammiere era un simpatico vecchietto di circa novant’ anni, spigliato e loquace quando parlava della Prima Guerra Mondiale e silenzioso come un indiano, quando gli argomenti affrontati non lo coinvolgevano direttamente.
Si sedeva sempre su una piccola sedia di paglia davanti al fienile della masseria, dove viveva con la famiglia di suo figlio, e cacciava senza pietà le mosche con “ la paletta per le mosche”.
Dopo aver individuato una mosca, prendeva con cura la mira e la uccideva al primo colpo, con uno scatto fulmineo e sorprendente per la sua veneranda età, poi l’ afferrava con una pinzetta per le sopracciglia, la riponeva delicatamente in una scatola di zolfanelli, che richiudeva ermeticamente e, quando calava la sera, contava le mosche che aveva ucciso.
“Oggi, ne ho uccise cento ventitré!”, mi disse la prima volta che lo incontrai nel 1977.
Lo guardai sbigottito perché non capii subito di cosa stesse parlando.
Prese la scatola di zolfanelli, l’ aprì e me la fece vedere: era ricolma di mosche variopinte di varie dimensioni, prese un accendino arrugginito dalla tasca laterale del suo giubbino militare e le bruciò. Le mosche bruciate emanarono nell’ aria circostante un puzzo insopportabile di carne bruciata che mi fece letteralmente rivoltare lo stomaco.
“Tu pensi che io sia pazzo?”, aggiunse Michele che notò il mio turbamento.
Mi limitai a sorridere e a scuotere leggermente la testa in segno di diniego.
Si guardò attorno con circospezione, come se volesse assicurarsi che nessuno ascoltasse le sue parole, prima di confidarsi con me, liberandosi dai ricordi di fatti sconvolgenti di cui sentiva il bisogno inconscio di raccontare.
“Partimmo baldanzosi per combattere una guerra che non ci apparteneva ma che era vista dalla maggior parte degli italiani come un conflitto necessario per riscattare chissà quale controversia bellica internazionale. Arrivammo al fronte che non conoscevamo neanche i motivi che avevano spinto l’ Italia a entrare in guerra. A malapena, riuscivamo a comunicare tra di noi, perché molti militari non conoscevano neanche l’ italiano. Avevo vent’ anni e vedevo la vita con gli occhi di un ventenne. Appena arrivato in prima linea, mi assegnarono d’ ufficio a una compagnia, dove svolgevo prima le mansioni di furiere poi, chissà per quale motivo, decisero che sarei diventato un fante in grado di maneggiare un lanciafiamme. Mi fecero seguire un corso accelerato per insegnarmi a usare quello strumento maledetto che aveva la capacità di ridurre a un ammasso di carboni ardenti il corpo di un giovane soldato tedesco in una frazione di secondo. Cercai di spiegare loro inutilmente che io fossi uno studente universitario con velleità artistiche.”
Rimasi sorpreso dal suo linguaggio forbito e nel contempo inusuale per un uomo della sua età. Parlava della sua esperienza bellica con dovizie di particolari e consapevolezza che avrebbe fatto drizzare i capelli anche a un pacifista.
“Il lanciafiamme era molto utile nella guerra di trincea, ma il flammiere era molto vulnerabile ed era sempre in pericolo di vita perché diventava facile bersaglio del fuoco nemico, e spesso era il primo a morire in battaglia.
Mi ricordo che un ex garibaldino ci sbraitava nelle orecchie per incitarci: fate finta d’ aver delle mosche davanti a voi e non dei soldati!”
Guardai con attenzione gli occhi dell’ uomo che narrava le sue vicissitudini e notai che brillavano di una luminosità pazzoide soprattutto quando parlava del lanciafiamme.
Mi alzai lentamente e cercai d’ allontanarmi dall’ uomo che continuava a borbottare frasi senza senso, e improvvisamente mi afferrò il polso con veemenza e mi chiese a bruciapelo:
“Perché mi hanno conferito una medaglia d’ oro al valore militare e nominato persino Cavaliere di Vittorio Veneto quando ammazzavo centinaia di persone con il mio lanciafiamme e adesso che ammazzo le mosche mi vogliono rinchiudere in un manicomio?”
Lo guardai dritto negli occhi, gli afferrai con delicatezza la mano che mi stringeva il polso e gliela accarezzai senza rispondere alla sua domanda.
Qualche anno più tardi, seppi casualmente che “ Michele il flammiere” si era suicidato dandosi fuoco dopo aver pregato a lungo, in ginocchio, davanti ad un cartello sul quale aveva scritto a matita:
“Chiedo perdono a tutti i soldati e a tutte le mosche che ho ucciso con il mio lanciafiamme!”