Parlo per me, per come sento io le cose. Per come avvertiamo il nostro “ essere” e ne abbiamo maggiore consapevolezza se collocati in uno spazio e in una dimensione temporale. Ci rapportiamo continuamente. Senza accorgercene instauriamo abitudini col mondo esterno, con le persone, le cose, l’ ambiente.
Ci manca l’ ambiente, non siamo o meglio mutiamo, ci perdiamo. Abbiamo bisogno di argini, di limiti.
Avvertiamo la mancanza di qualcuno allo stesso modo di qualcosa. Dipende da noi, dalla nostra capacità di lasciarci coinvolgere dal mondo esterno, dalla nostra sensibilità, dal nostro attaccamento emotivo, dalla nostra struttura mentale, questo sentire più o meno intensamente il senso della mancanza. E allora ci sentiamo diversi, senza forze, senza stimoli o motivazioni, più vicini al mondo vegetale; a quello animale assomigliamo per irascibilità, istintività. Mettiamo il nostro cervello in stand- by. “ Lui “ è il primo a cedere, il corpo soffre ma resiste, la mente soffre e abbatte anche il corpo.
Se qualcosa ci manca, vuol dire che abbiamo provato amore verso di essa, vuol dire che si era creato un legame, vuol dire che ci dava piacere e soddisfazione, problemi e volontà di trovare soluzioni, ci costava sacrificio, c’ impegnava. Ecco ora questo non c’è più e noi non siamo lo stesso. Brancoliamo nel buio, camminiamo a zonzo, guardiamo le lancette alla parete, non abbiamo più idee, sospendiamo ogni attività. Siamo recipiente a volte, altre volte noi stessi sostanze, liquidi in una sorta di recipiente ben più grande.
Parlo per me e per come è difficile rimanere così, impotenti dinanzi a qualcosa che non dipende da noi.
Forse allora ci rendiamo conto di essere infinitamente piccoli.