"Chi di voi, bambini, sa dirmi cos’è una parabola? "
"Io, signor maestro. Me l’ ha spiegata ieri mio padre. Una parabola è una traiettoria particolare che i bravi giocatori di calcio sanno dare al pallone per mettere in difficoltà gli avversari. "
Il maestro sorrise un po‘, e poi aggiunse: "Ma stavamo parlando di religione, e le parabole che intendevo io sono quelle storielle edificanti che Nostro Signore Gesù Cristo era solito raccontare! "
Ero forse in terza, o in quarta, elementare, e quella mia brutta figura mi fece sentire sul momento in imbarazzo, ma poi, tornando a casa, molto probabilmente mi misi a riflettere e ne trassi un certo godimento, perché avevo dimostrato di conoscere un altro significato, ugualmente corretto, della stessa parola, perché avevo scoperto che la religione si può confondere col gioco, perché forse Gesù, se ai suoi tempi si fosse giocato a calcio, avrebbe magari preferito le parabole fatte coi piedi a quelle fatte con la bocca... Ebbi la soddisfazione, insomma, di essere un bambino un po’ diverso, confusamente capace di guardare anche l’ altra faccia della medaglia!
Mentre nella famiglia di mia madre, che io sappia, non ci furono mai vocazioni religiose, il mio cognome, invece, nei secoli passati fu quello di non pochi sacerdoti della mia cittadina. Alcuni forse furono un poco originali, non sempre ligi alle direttive dei vescovi, a cominciare da quel Francesco Terracciano che, nel 1799, aderì alla Repubblica Partenopea e che, al ritorno del Re, pur essendo graziato, fu costretto a imbarcarsi per Marsiglia (cfr. "L’ Albero della Libertà nella Repubblica Napoletana del 1799 ", di Girolamo Addeo, ed. Loffredo, Napoli, 1997, pag. 100, nota) .
A mio padre, da bambino, piaceva servire la Messa: si ricordava, forse, dell’ esperienza di un suo nonno. Il padre della mia nonna paterna, nella seconda metà dell’ Ottocento, poco dopo l’ unità d’ Italia, sembrava destinato alla carriera religiosa: sui vent’ anni di età si trovava in un convento, nel quale studiava per diventare monaco. Ma non lo diventò: la leggenda familiare vuole che egli vide passare da quelle parti una bella ragazza (la mia bisnonna), che se ne innamorò e che per questo motivo gettò alle ortiche tutti i suoi progetti precedenti. Probabilmente non è questa la verità: mio padre, e ancor più la sua sorella minore, ogni tanto mi dicevano che questo loro nonno, negli anni Venti, raccomandava ai nipotini di non prestare troppa fede a ciò che insegnavano i preti, perché "erano tutte sciocchezze" ...
Il mio bisnonno ebbe il coraggio di interrompere drasticamente la sua esperienza religiosa giovanile, ma la maggior parte dei giovani intelligenti non ha quel coraggio: costoro diventano preti o frati (e talvolta qualcosa di più) per convenienza spesso economica, e poi fanno quel loro mestiere senza passione.
Del resto, in tutti i campi è così: forse soltanto il dieci per cento delle persone fa il proprio lavoro con vera passione, mentre il resto, pur dimostrando competenza, serietà e onestà, crede poco, intimamente, al valore di quel lavoro. Quanti insegnanti, ad esempio, credono davvero a tutto ciò che sono costretti a insegnare, e quanti medici prescriverebbero a se stessi le medesime medicine che danno ai loro pazienti?
Quella "parabola" fu forse, per me bambino, la rivelazione della doppia (tripla, quadrupla, a volte) natura che possono avere quasi tutte le parole, il simbolo della doppia (tripla, quadrupla...) personalità di tutti noi, il primo impulso a scovare la diversità che si cela dietro le apparenze, a cercare quel montaliano varco che ci libera dalle convenzioni: "Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! " ("Ossi di seppia", "In limine") .