8 maggio 1902
Era in atto una tempesta e il vento sibilava, scandendo l’ ululato d’ un branco di lupi famelici.
Il ragazzo correva a perdifiato; a volte inciampava e perdeva i pochi metri di vantaggio accumulati durante la forsennata fuga. Allora, il terrore lo pressava e lo induceva a ritrovare in fretta l’ equilibrio e a correre ancora più forte.
Il suo cuore prese a battere all’ impazzata quando si accorse che, a causa dell’ ultima caduta, un paio di lupi erano riusciti a sorpassarlo e in quel momento lo precedevano, pronti all’ agguato.
Il branco che lo inseguiva, invece, aveva guadagnato terreno e a lui sembrava quasi di sentirne il fiato sul collo.
Era circondato e si sentì sull’ orlo di un abisso.
Aiashi Hamamoto si svegliò di soprassalto, il pigiama ormai zuppo di sudore gelido.
“ Di nuovo lo stesso incubo e sono anni che mi tormenta! Perché? Che significato ha?” si domandò angosciato dalle intense sensazioni provate.
Sempre lo stesso sogno, le stesse immagini terrificanti, con lo stesso finale che non cambiava mai. Decine e decine di lupi ululanti in una tormenta di vento gelido, si dirigevano in gruppo verso le montagne e, arrivati presso un sentiero che s’ inerpicava scosceso su fino a una vetta, si fermavano. Il capo branco si girava improvvisamente verso il fuggitivo e con occhi iniettati di sangue, gli parlava:
“ Tu verrai da me, piccolo refolo e insieme cresceremo diventando tempesta e spazzeremo con il gelo i sentieri di guerra!”
Aiashi, seduto sul suo letto, continuava a tormentarsi su un possibile significato di quel sogno ricorrente.
Era un ragazzino come tanti di dodici anni, molto bravo a scuola. Era nato in una grande città giapponese che si estendeva alle pendici del maestoso vulcano, dalla cima perennemente coperta dalla neve. I suoi genitori lavoravano e quando tornava da scuola, andava a pranzo dalla zia Narumi, sorella di suo padre.
Aiashi era molto affezionato a quella donna minuta e dallo sguardo buono, che lo aveva cresciuto come fosse stato suo figlio.
La mente di Aiashi tornò al giorno in cui aveva parlato per la prima volta alla zia di quello che gli accadeva durante il sonno e di come la zia aveva reagito, abbassando gli occhi come se avesse voluto nascondergli i suoi pensieri.
«Non devi preoccuparti! Probabilmente dipende da un temporaneo disagio e dallo stress dovuto allo studio. Vedrai che tutto si sistemerà appena terminato l’ anno scolastico.»
Poi la zia si era affrettata a cambiare discorso e a lui, quell’ atteggiamento era parso molto strano, anche se non aveva voluto approfondire.
Ma, col tempo, il sogno era diventato troppo frequente e Aiashi si sentiva sempre più angosciato. Il suo disagio interiore aumentava, così come aumentava il bisogno di confidarsi.
«Ho deciso — si disse, ormai stanco di portare quel peso immane e infinito —subito dopo le lezioni tornerò a domandare consiglio alla zia Narumi e, se dovessi riscontrare altre strane reazioni, le domanderò spiegazioni.»
Quel giorno, sua zia, gli sembrò più disponibile perché lo ascoltò con attenzione e senza evitare il suo sguardo mentre lui le narrava dei lupi e della sua concitata fuga.
« I sogni a volte sono premonitori e ci parlano Aiashi, sta a noi interpretarli e seguirne le labili indicazioni che ci suggeriscono. I lupi hanno sempre fatto parte della vita dei nostri antenati e della nostra stessa esistenza. Fino adesso, ho ritenuto che tu fossi troppo piccolo per conoscere la storia di un samurai morto da tempo e della dolce Sharez, sua sposa Hashiko, Fior di Ciliegio, tua nonna. — gli disse la donna con tono grave — La fama delle loro gesta rimase scolpita nella memoria di quanti ebbero la fortuna di combattere al loro fianco, tramandando la loro gloriosa storia alle generazioni che son venute dopo. La storia di tuo nonno, di cui tu porti il nome glorioso e quella del suo grande amore.»
La spiegazione di sua zia lo aveva lasciato sconcertato. Aiashi non si aspettava certo che le parlasse di misteri di famiglia taciuti per anni.
«Parlami di loro, ti prego zia!»
« Forse è meglio che tu venga con me. C’è qualcosa che vorrei mostrarti!» gli aveva detto lei vedendolo interdetto.
« Dove andiamo?» le aveva chiesto, ormai tutto preso dalla curiosità di sapere.
« Vieni e vedrai» aveva ribadito ma sempre con quel suo dolce modo di fare.
La donna aveva fatto scorrere una paratia divisoria composta da vari pannelli di seta dipinti a mano e ancora una volta i disegni avevano attirato tutta l’ attenzione del ragazzo. Erano scene di caccia e di guerra e venivano rappresentati guerrieri d’ altri tempi, che indossavano armature elaborate e dall’ aria antica.
L’ esitazione di Aiashi davanti al dipinto non era affatto sfuggita alla zia:
« Sono i nobili guerrieri chiamati samurai. Ne hai mai sentito parlare, ragazzo?»
« A scuola abbiamo trattato l’ argomento ma senza mai approfondire e comunque mi piacerebbe proprio saperne di più.» aveva risposto, poi e all’ improvviso, notò un particolare che gli era completamente sfuggito prima. Quel pannello lo vedeva da anni ma non aveva mai notato il branco di lupi presenti tra i samurai in una delle tante scene di guerra.
Aiashi si era avvicinato ancor di più scrutando con attenzione il dipinto: «Lupi, ancora lupi! Ma come accidenti ho fatto a non accorgermene prima?» si disse mentre rimaneva affascinato dalla scena suggestiva che sembrava prendesse vita nel pannello che stava osservando.
« Quanti lupi, zia!»
Lei gli sorrise: « Te l’ ho detto! Quegli animali fanno parte della storia della nostra famiglia e dovrai abituarti a vederne spesso. Ma vieni, non indugiamo oltre. La storia che desidero narrarti è molto lunga.»
La zia lo aveva preceduto su per la lunga scala a pioli che portava nel solaio, una stanza tenuta linda e ordinata, che prendeva luce da un grande abbaino posto sulle tegole del tetto spiovente. Aiashi ricordò alla perfezione l’ odore di lavanda e di pulito, insolito per simile ambiente, che tanto lo aveva colpito al suo ingresso.
«Che profumo!» aveva detto mentre scorreva uno sguardo curioso per la stanza.
«Tu sai che l’ ordine e la pulizia sono regole fondamentali in questa casa.»
Aiashi lo sapeva perfettamente ma nel frattempo un’ altra idea aveva solleticato la sua curiosità: « Come mai ho sempre ignorato l’ esistenza di questo ripostiglio?»
« Forse non ti sei mai interessato abbastanza a questa casa, ma davvero questo locale ti sembra un ripostiglio? Guardati bene intorno e dimmi!»
Sua zia aveva ragione. Quello non era certo uno sgabuzzino, ma una stanza tenuta in perfetto ordine. Non vi era un filo di polvere, tipico dei vani di servizio e nemmeno una ragnatela che facesse pensare a un locale disabitato e trascurato nel tempo.
Poi, appoggiati alla parete di fronte all’ ingresso, notò due manichini di legno su cui erano sistemate due antiche armature da samurai. Non le aveva notate prima a causa della penombra in cui era immersa quella parte. In quel momento la zia aveva acceso una lampada e solo allora Aiashi aveva potuto ammirare lo splendore delle corazze di cuoio e delle maschere.
«Sembra che siano appena state lucidate e riposte» aveva esclamato estasiato, mentre la sua mano saliva ad accarezzare il tessuto pregiato dei kimono, che venivano indossati sotto le armature e le incisioni che decoravano i pettorali di cuoio.
« Che belle zia! Sono queste le armature dei nonni?»
« Sì, Aiashi, sono proprio queste!» aveva risposto la donna.
Sempre più preso dalla smania di scoprire ogni piccolo dettaglio, Aiashi aveva osservato le armature in tutta la loro grandezza fino a soffermarsi sulla forma caratteristica degli elmi: «Raffigurano fedelmente le teste di due lupi» aveva detto rabbrividendo di fronte le fauci spalancate delle belve.
Proprio in quel momento e, come per magia, la visione di una battaglia si era formata nella sua mente.
Troppo intento ad ascoltare il clangore delle spade, il muggito caratteristico e cupo dei corni da battaglia e le urla dei guerrieri non si era nemmeno reso di aver vacillato e del sostegno provvidenziale offerto da sua zia.
Nella sua coscienza si formò anche l’ immagine di una splendida amazzone con il corpo protetto dall’ armatura e il caratteristico elmo della maschera da lupo sollevata. Aiashi ebbe l’ impressione di essere osservato e nel momento in cui la guerriera si lanciava al galoppo sul suo destriero emetteva a squarciagola il suo urlo di battaglia.
La visione continuò e per lui fu come assistere a un tragico cortometraggio. In realtà, in certi momenti ebbe la netta sensazione di non essere soltanto un semplice spettatore ma di fare parte di quegli accadimenti. Si vedeva proiettato sul campo da battaglia e riusciva a percepire l’ odore del fumo, del sudore di uomini e cavalli e quello raggelante causato dai fiumi di sangue che scorrevano. E fu allora che si accorse della presenza di un altro samurai con la spada e l’ armatura imbrattata di fango e di sangue.
Il guerriero, alto e imponente, si volse proprio verso di lui e, sollevata la maschera, lo squadrò con sguardo gelido.
Aiashi tremò in ogni fibra del suo essere e solo allora avvertì la zia che lo scuoteva con decisione: «Aiashi, che ti prende? Stai male?»
« Io… io credo di aver avuto… non lo so zia! È stato come un incubo, un incubo a occhi aperti! Non starò per diventare pazzo, vero?» aveva domandato con l’ animo pieno di angoscia.
«Hai avuto una visione, vero?» le aveva domandato sua zia con estrema dolcezza.
Lui, ancora traumatizzato ebbe solo la forza di annuire.
«Non devi temere di essere pazzo. Si tratta della storia della nostra famiglia ed è proprio giunta l’ ora che tu la conosca nei minimi dettagli.»
Il tono era stato pacato ma Aiashi ebbe modo di notare un insolito luccichio negli occhi della donna. Erano lacrime e brillavano come due stelle.
Fu solo un attimo, poi Narumi abbassò lo sguardo e lui intuì che voleva nascondere la sua emozione.
La zia si era poi diretta presso un grosso baule e tra tutte le cose custodite con cura aveva prelevato un libro porgendoglielo: «Prendi e leggilo con attenzione.»
« Di cosa parla questo libro, zia?» aveva domandato, ammirando la mirabile manifattura della copertina di cuoio con una testa di lupo incisa e chiusa da lacci.
«Non è un libro ma il diario di tuo nonno.» gli aveva spiegato, poi si era congedata lasciandolo solo.
Aiashi si era seduto a gambe incrociate davanti alle armature e, con un pizzico di emozione, aveva iniziato la lettura.
15 dicembre 1840
“ Il mio nome è Aiashi Hamamoto e sono un monaco guerriero, come mio padre prima di me. Il mio nobile genitore era un samurai alla corte dell’ impero, addetto alla difesa del suo nobile signore. In quei giorni, venti di ribellione spiravano forti, alimentando le fiamme dei piccoli focolai di guerra, su quasi tutte le numerose provincie assoggettate agli shogun locali. Erano molti i signori della guerra che volevano far cadere l’ impero, prendendo in mano le redini del potere. Mio padre fu inviato dall’ Imperatore per cercare di sedare le sommosse e le numerose lotte interne, riunire tutti i capi dei molteplici clan e cercare di formare, a sua volta, un unico esercito di esperti samurai.
Non fu una missione facile. Gli shogun non volevano cedere gli uomini e nemmeno il loro comando. E, sebbene i guerrieri fossero sparsi in un territorio ampio e selvaggio, mio padre riuscì a convincerli e a formare con loro un suo esercito, nominando suoi generali i loro shogun.
E in capo a pochi mesi li guidò alle porte della città imperiale.
La mia storia iniziò quando avevo dodici anni e mio padre decise che ero grande abbastanza per frequentare la scuola da samurai.
18 febbraio1841
« Zio, manca ancora molto all’ arrivo?» domandai esausto e trafelato per l’ interminabile ed estenuante risalita a dorso di mulo sulla montagna dalla cima innevata.
Lo zio, che quel giorno mi accompagnava, mi indicò la vetta circondata da una coltre di nubi: « No, guarda. Ci siamo quasi. Riesci a vedere il villaggio?»
Osservai con attenzione il luogo indicato e nell’ ammasso di tetti che s’ intravedevano, individuai quello più alto e spiovente del tempio.
Emisi un profondo sospiro di sollievo! Mi doleva la schiena e sentivo le gambe anchilosate per la posizione forzata assunta sulla groppa dell’ animale. Lo zio mi diede un buffetto: « Un ultimo sforzo, Coraggio!»
Lo ringraziai con un sorriso.
Ero grato a quell’ uomo che faceva le veci di mio padre impegnato a sedare il malcontento che ancora regnava tra i guerrieri. Avrebbe dovuto essere lui ad accompagnarmi come era tradizione da secoli.
In quel momento la sua mancanza mi pesò e arrivai al monastero con l’ animo scontento.
Nel momento di congedarmi dallo zio il cuore mi si strinse in una morsa: da allora in poi non avrei avuto più contatti con la mia famiglia e io, ragazzino di appena dodici anni, avvertii il distacco come una lacerazione profonda.
« Zio, porteresti questo messaggio a mio padre?» gli domandai, cercando di nascondere il velo di lacrime che mi appannava la vista.
Lui finse di non accorgersi della mia emozione e annuì volgendo lo sguardo altrove.
Ci fu qualche istante di silenzio e percepii in mio zio le mie stesse sensazioni. Tentò di dissolvere quei momenti di imbarazzo e di tensione: «In questo luogo di pace e sapienza troverai tanti amici e imparerai molte cose e quando ti ritroveremo sarai diventato un vero samurai. Fatti onore e sii sempre umile e sincero, come lo sei ora.»
Sentivo il cuore battere forsennatamente nel petto e le lacrime bruciarmi gli occhi. Avrei voluto abbracciarlo e piangere a dirotto ma l’ orgoglio me lo impedì. Ingoiai il pianto e lo salutai con tristezza.
« Vai ora!» mi disse condividendo tutta la mia malinconia.
Mi diressi verso il portale spalancato del monastero e quando mi volsi un’ ultima volta vidi lo zio ancora fermo a osservarmi. Ci salutammo da lontano con le mani poi entrai per iniziare la mia nuova vita.
Quell’ anno la primavera stentava ad arrivare, l’ aria gelida sferzava ancora le colline a ridosso del villaggio impedendo ai ciliegi di sbocciare e di inondare i dintorni del dolce profumo dei fiori.
Pochi giorni dopo il mio arrivo avvenne un fatto che avrebbe potuto apparire come una bizzarra coincidenza ma, che in quel momento m’ impressionò così tanto da lasciarmi un senso di disagio inspiegabile per parecchi giorni.
“Questi sono ululati!” pensai con sconcerto scrutando con attenzione le ripide pareti delle montagne intorno. “Possibile che ci siano lupi a questa altezza?”
Avrei voluto domandare ai compagni più grandi che giocavano o parlavano tra loro nel cortile, ma essendo timido e non avendo ancora fatto amicizia rinunciai.
In quel momento venni distolto da un lieve fruscio nell’ aria e, quando levai gli occhi al cielo potei ammirare il volo superbo di due splendide aquile reali. Dimenticai gli ululati e per un po’ seguii le loro leggiadre evoluzioni tra le vette dei dintorni e solo quando divennero due piccoli punti in lontananza, tornai in camerata.
Prima di salutarci mio padre mi aveva affidato un papiro arrotolato con il compito di consegnarlo nelle mani del Venerabile Maestro a capo del monastero. Non so cosa ci fosse scritto ma immaginai che fossero due parole di accompagnamento per me, considerato che non aveva potuto farlo di persona.
Mi presentai dunque all’ ingresso del tempio dove sostavano due monaci guardiani in divisa da samurai, che mi accolsero con aria impassibile.
Guardai quegli uomini con sguardo ammirato, senza che mi ponessero domande, poi uno di loro suonò un gong situato vicino al portale d’ ingresso e con un cenno m’ invitò a entrare.
Venni preso all’ istante dalla malia tramessa dalla sacralità del luogo.
Fui avvolto dal silenzio e dalla penombra e subito mi colpì il leggero e piacevole profumo d’ incenso aleggiante nell’ aria, mentre il suono di un altro piccolo gong annunciò l’ ingresso del Gran Sacerdote.
M’ inchinai rispettosamente rimanendo in attesa ma, invece di un anziano dalla candida barba, quando rialzai il capo mi trovai davanti a una giovanissima donna.
Era bellissima, forse poco più grande di me e sgranai gli occhi per la sorpresa.
« Salute a te Aiashi, figlio di Aiashi Hamamoto e benvenuto. Il mio nome è Hashiko. Ma ti vedo meravigliato, non ti aspettavi una donna, forse?» domandò con un tono che mi parve melodioso, come il canto di un usignolo tra i rami in fiore.
« Perdona uno stolto ragazzo, Grande Sharez, la stanchezza e l’ inesperienza giocano brutti scherzi. Sono onorato di fare la tua conoscenza» esclamai, ritrovando la parola, pur mantenendo un atteggiamento umile.
Lei mi sorrise e per me fu come assistere al sorgere di un’ alba radiosa.
Non so se si accorse del benefico effetto che ebbe su di me, so soltanto che mi si avvicinò e il suo profumo mi inebriò i sensi.
Mi sentii arrossire fino alla radice dei capelli e, per nascondere la mia confusione, finsi di guardarmi intorno.
Ignara della mia confusione, lei proseguì: « Porgimi la notifica del tuo shogun, in modo che possa leggerla. E va a riposarti, domani stesso comincerai l’ addestramento con il gran maestro d’ armi.»
Guardai il rotolo che stringevo tra le mani un po’ amareggiato e pensai di essermi sbagliato.
Mi congedai, evitando di guardarla negli occhi per non mostrarle la mia delusione, ma arretrando cercai di non volgerle mai le spalle. Per me era stato come incontrare una dea e, da quel momento, avevo iniziato ad amarla.
Un’ altra sorpresa mi attendeva l’ indomani quando venni convocato e mi recai nel cortile della scuola. Il gran maestro era la stessa giovane dai tratti fieri e nobili e dal corpo esile e flessuoso come un germoglio di bambù, che mi aveva accolto al tempio.
« Sei tu il gran maestro?» ebbi il coraggio di domandarle osservando con stupore il kimono di seta candida che indossava stretto in vita dalla fusciacca nera che denunciava il grado di apprendimento di ogni aspirante guerriero.
«Perché avresti qualcosa da ridire Aiashi Hamamoto?»
Il suo tono di sfida mi sorprese.
« No… no…» balbettai confuso mentre sentivo i compagni schierati con me sghignazzare divertiti.
«Fate silenzio» ordinò lei con cipiglio deciso facendo roteare per aria il bastone da combattimento.
«E allora che hai da guardare così?»
«Io non avevo mai sentito parlare di una donna samurai» riuscii a dire abbastanza deciso.
« Ma guarda! Non ti sei accorto che tra i tuoi compagni ci sono anche alcune ragazze?»
In quel momento mi senti deriso: «Ragazze?» ripetei, squadrando con attenzione la tripla fila di allievi schierati come me nel cortile.
Eravamo quasi tutti adolescenti della stessa età e tutti quanti con i capelli raccolti e legati in una treccia che ci ricadeva sulla schiena. Solo pochi di noi iniziavano a mostrare sul viso e nel corpo i primi segni della pubertà. In molti riconoscevo ancora tratti fanciulleschi e, inoltre, a mia difesa devo dire che le poche ragazze presenti amavano nascondere la loro essenza femminile imitando noi maschi nel portamento e nei modi.
Mi accorsi che gli altri trattenevano a stento i risolini e arrossii fino alla radice dei capelli.
Hashiko percepì il mio disagio e mi incoraggiò con un lieve sorriso.
« Quando sei pronto, possiamo iniziare» disse consegnando il suo bastone a un allievo.
Le fui grato perché con poco mi aveva tolto dall’ impaccio, così assunsi la posizione rigida del saluto e m’ inchinai, pronto al combattimento.
Hashiko fece altrettanto quindi, in modo repentino, divaricò le gambe e tese le braccia afferrandomi per la tunica e scagliandomi per aria.
Fu una questione di pochi secondi, eppure, mi parve che il volo non terminasse mai e, quando atterrai, rimasi senza fiato per il duro impatto. Indugiai in quella buffa posizione per qualche secondo, gli occhi sbarrati un po’ per il dolore e un po’ per la sorpresa.
« Non eri affatto pronto!» mi redarguì lei, tendendomi una mano e aiutandomi a rialzarmi.
« Scusami, Grande Sharez!» balbettai incerto. « Il fatto è che… io… non…» non riuscendo a trovare le parole adatte, m’ interruppi.
« Conosci il mio nome e preferirei che tu usassi quello, Aiashi — mi riprese, quindi, proseguì — Non ti aspettavi di doverti allenare con una donna? Perché tu è questo che noti soltanto in me, vero? Una semplice, delicata ragazza, che ritieni non idonea alla vita dura da samurai.»
Ancora una volta non riuscii a replicare. Lei aveva colto nel segno i miei dubbi e le mie incertezze.
« Pregiudizi. Hai la mente piena di pregiudizi! La maggior parte degli uomini crede che la lotta, la guerra, siano prerogative non consone al genere femminile. Ma ti dimostrerò quanto, questa atavica credenza sia sbagliata.»
Tacqui. Non sapevo cosa rispondere ed ero mortificato oltre che ferito nell’ orgoglio per essere finito in terra in una manciata di secondi e senza aver avuto il tempo di portare a segno un colpo.
Mio padre e mio zio si erano occupati del mio addestramento insegnandomi sin da piccolo le tecniche di attacco e di difesa nella Sacra Lotta e si erano sempre complimentati con me. Ora capivo che lo facevano soltanto per stimolarmi e gratificarmi.
Mi ero creduto imbattile ed ero stato costretto a ricredermi. Hashiko mi aveva impartito la prima e grande lezione di vita.
Quasi mi avesse letto nei pensieri, lei mi ammonì: « Ricorda, mai sottovalutare un avversario, ma soprattutto, mai giudicarlo per il suo aspetto fisico. Ne convieni?»
Abbassai rispettosamente il capo, in fin dei conti, anche se mi aveva dato il permesso di tralasciare le formalità, avevo sempre davanti la Grande Sharez. « Ho inteso bene, Hashiko! Me lo ricorderò!»
Lei annuì, proseguendo « Bene! Ora seguimi!»
Ci spostammo una decina di metri rispetto ai compagni e mi spiegò: «Vedi, Aiashi, in genere non addestro i nuovi allievi alla disciplina della Sacra Lotta, non spetta a me, anche se il titolo di Gran Maestro me lo sono guadagnata per meriti personali. Ma tu sei un allievo speciale e ho voluto metterti alla prova. Il tuo destino è scritto nelle stelle e io ti devo preparare ad affrontarlo.»
La Sharez fece una pausa, forse per farmi metabolizzare quanto appena detto, o forse per darmi il tempo di rispondere.
« Che genere di destino?» domandai a quel punto, incuriosito.
« Lo saprai a tempo debito. Ora permettimi di dirti che sei troppo mingherlino per la tua età! Devi mettere su qualche chilo di muscoli, se vuoi diventare samurai.»
« Mi allenerò tutti giorni, Hashiko. Te lo prometto!»
« Una semplice promessa non può bastare, Aiashi! Sappi che ti terrò d’ occhio! Esigo che t’ impegni il doppio rispetto ai tuoi compagni, anche fino allo sfinimento. Hai davanti a te anni duri di sacrificio e occorre una dedizione completa se vuoi raggiungere l’ obiettivo che ti sei prefissato.»
Ebbi un sussulto di orgoglio: «L’ ho promesso a mio padre prima di impegnarmi con te ma, soprattutto l’ ho promesso a me stesso. Hai ragione: sono giovane e mingherlino ma sono anche caparbio e orgoglioso e ti giuro che un giorno sarò un samurai e voi tutti sarete fieri di me! Inoltre, avrò il privilegio di avere te come insegnante e diverrò davvero imbattibile, Hashiko.»
Lei sorrise, annuendo: «Riponi molta fiducia in me e ti ringrazio» terminò abbassando lievemente il capo e lasciandomi deliziato dalla soavità del suo gesto.
Allora non la conoscevo abbastanza e non sapevo quanto potesse essere inflessibile.
A quei tempi ero molto giovane e con il cuore colmo di illusioni, speranze e sogni.
Hashiko mi appariva come una dea e ormai innamorato di lei, il cuore mi batteva come impazzito ogni volta che la vedevo.
Quel giorno stesso ebbe inizio il mio addestramento che durò per parecchi anni.
Ma le cose non andarono nel modo in cui la Sharez mi aveva fatto intendere e sperare. La maggior parte delle lezioni le facevo insieme agli altri allievi e solo raramente la vedevo.
Hashiko compariva all’ improvviso e quando meno me lo aspettavo. Allora mi ordinava di seguirla e ci appartavamo nella “ Radura della contemplazione”. Così l’ avevo nominata, perché era in quel luogo tranquillo che lei pretendeva il massimo raccoglimento per effettuare i nostri esercizi di meditazione.
Trovavo rilassante quelle poche ore di spiritualità, anche se a volte, mentre era intenta nel raccoglimento, mi lasciavo distrarre dalla delicatezza dei suoi lineamenti e, invece che sublimare la natura che ci circondava, mi perdevo a contemplare lei.
«Così non va, Aiashi Hamamoto. Non sei concentrato» mi rimproverava quando se ne accorgeva.
Io arrossivo e riprendevo posizione e lei, senza nemmeno degnarmi di uno sguardo, continuava: «Devi imparare a non lasciarti distrarre. Mantenere la concentrazione giusta è un fattore indispensabile e determinante per raggiungere i tuoi scopi.»
Nonostante la sua severità non rinunciai mai, durante i nostri scontri, ad ammirarne la bellezza e la flessuosità dei movimenti e lei finse sempre di non accorgersi di questo mio trasporto nei suoi confronti.
Nel monastero la sveglia era all’ alba e dopo la colazione iniziava lo studio.
Si trattava di lezioni di storia, geografia e matematica, ma anche di teoria sulle tecniche di combattimento e persino di anatomia. Dovevamo essere consapevoli di ogni muscolo e nervo del nostro corpo durante gli allenamenti e dovevamo conoscere gli organi vitali.
Terminate le lezioni ci recavamo in cortile disponendoci in fila ordinate e iniziavamo l’ allenamento.
Hiroshi Nakamura, il nostro insegnante, ci mostrava le varie tecniche di difesa e di attacco mentre, Mikasa Tanaka era la nostra insegnante di lotta con i bastoni.
Una nobile arte, antica come i samurai stessi, ed una pratica in cui eccellevo, distinguendomi da tutti gli altri allievi. Non si tratta di presunzione o di arroganza ma soltanto conoscenza dei limiti e delle possibilità: negli scontri con i bastoni molto spesso uscivo vincitore, con i compagni che finivano in mezzo alla polvere.
Il nostro addestramento comprendeva anche il tiro con l’ arco, il lancio dei giavellotti e l’ uso della spada oltre alle lezioni di equitazione.
«Non è affatto semplice galoppare sul campo di battaglia mantenendosi in equilibrio e manovrando con l’ arco. Occorre avere mano ferma, cuore saldo e occhio fisso sul bersaglio» ci ripeteva Izumo Sunami, il nostro insegnante di equitazione.
«Occorre che impariate a dominare i nervi ma, soprattutto, addestrare il vostro destriero da guerra. Nel galoppo verrete sbattuti su e giù e nello scartare ostacoli sarete spostati violentemente a destra e a sinistra. Dovrete imparare a tenere gli occhi fissi sul bersaglio e a correggere la traiettoria in un momento per non perdere l’ opportunità di scoccare e fare centro. La vostra cavalcatura deve imparare a obbedire all’ istante ai comandi, che impartirete con la semplice pressione delle ginocchia. Abbiate sempre cura del vostro animale perché con l’ addestramento, la pazienza e la conoscenza, imparerete a sentirvi tutt’ uno. Fidatevi del suo istinto perché sarà da lui che dipenderà la vostra vita.»
Mi resi subito conto che Izumo Sunami aveva ragione e cercai di mettere in pratica i suoi consigli creando un ottimo rapporto con il mio cavallo, che era degno del nome che gli avevo imposto: Kaze no musuku, Figlio del vento.
Figlio del vento non mi era stato inviato dal destino ma era un dono della Sharez.
Un giorno, durante una delle mie uscite a cavallo dal monastero, la vidi cavalcare in solitario. Il suo destriero era velocissimo e faticai a raggiungerla. Lei mi scorse da lontano e spronò ancora di più il suo con lo scopo di rendermi difficile raggiungerla. Solo quando rallentò riuscii ad affiancarla.
Aveva il viso roseo, congestionato dal vento e dalla fatica, eppure, la trovai incantevole anche se avevo notato che si sforzava di trattenere le risa.
«Hai bisogno di un cavallo più forte e più veloce. Quello che monti non è degno di un samurai.»
La scrutai allibito: «Mi è stato assegnato dal marescalco e non credo che sia così pessimo…»
« Parlerò io stessa con il mastro stalliere e ti farò assegnare una cavalcatura adeguata» disse e dopo un istante dava di sproni e si allontanava.
Il giorno dopo, mentre mi prendevo cura del mio cavallo, venni raggiunto dal mastro stalliere, che conduceva per la cavezza uno splendido purosangue dal manto candido come la neve.
« Da oggi in poi sarà questo il tuo cavallo, Aiashi Hamamoto. È giovane e un po’ ombroso, ma molto veloce. Non ha ancora un nome perché deve essere il suo cavaliere a imporgliene uno. Trattalo bene e lui ti servirà fedelmente.» mi disse, consegnandomi le briglie.
Lo ringraziai e lui scosse la testa: «Ringrazia la Gran Sharez. Questo cavallo apparteneva a lei e ha voluto fartene dono.»
« Lo farò appena è possibile.» gli risposi, accarezzando il manto del mio nuovo compagno di avventure.
L’ occasione si presentò dopo pochi giorni ma lei liquidò la faccenda con un cenno della mano e subito dopo iniziarono gli allenamenti.
Io e Figlio del vento ci comprendemmo al volo diventando subito amici.
Mi prendevo cura di lui strigliandolo e addestrandolo quotidianamente e non passava giorno senza che galoppassimo nei dintorni del monastero.
I miei compagni me lo invidiavano e avrebbero dato chissà cosa per cambiare il loro cavallo con il mio.
In poco tempo il mio corpo e la mia mente si rinforzarono, trasformandosi, così come quello di tutti gli aspiranti monaci guerrieri.
Vi era un maestro in particolare, Hiroshi Hatamura, che ci insegnava l’ arte della lotta corpo a corpo. Era un uomo ligio, dal carattere inflessibile, forgiato da anni di campagne bellicose contro gli shogun ribelli.
Alcune volte avevo l’ impressione che mi avesse preso in antipatia, difatti, manteneva sempre un atteggiamento particolarmente duro con me. Mi rimproverava spesso e, quando sbagliavo, non perdeva occasione di riprendermi davanti ai miei compagni.
« Hai sbagliato ancora una volta, Aiashi Hamamoto e ripeterai quell’ esercizio fino allo sfinimento e sino a quando non lo avrai eseguito alla perfezione»
Arrossivo e mi rodevo. Anche gli altri sbagliavano eppure, non li trattava con la stessa severità. Non potevo fare a meno di sentirmi umiliato ma stringevo i denti e ripetevo l’ esercizio fino a quando il maestro riteneva che andasse bene.
Allora non potevo sapere che aveva ricevuto ordini precisi sul mio conto e che stava solo forgiando il mio carattere, preparandolo all’ improrogabile destino che mi attendeva.
Ora, devo riconoscere che quel suo comportamento così rigoroso nei miei confronti, nel corso dei tragici eventi che si sono susseguiti, si è rivelato fondamentale.
Con Hiroshi imparai anche ad affrontare le mie paure, compresa la grande ritrosia nei confronti dell’ acqua. Non avevo mai imparato a nuotare e l’ elemento liquido m’ incuteva una soggezione, che arrivava a sfiorare i limiti del terrore. Tutti i miei compagni erano a conoscenza di questa mia grande debolezza e, quando capitava di recarci al fiume per addestrarci alla navigazione dello stesso o per le nostre abluzioni, non erano rari gli scherzi che ideavano ai miei danni.
Ricordo che una volta, in seguito alle piogge torrenziali cadute per giorni e giorni, il corso del fiume aveva più che decuplicato la sua capienza e scorreva fragoroso e minaccioso. Le acque, diventate scure per il limo e i detriti, precipitavano spumeggiando e avevano già superato di un bel pezzo i piccoli argini di contenimento.
Quel giorno non mi avvicinai più di tanto all’ acqua e anche se il maestro Hiroshi mi aveva già impartito alcune lezioni di nuoto, non ero ancora sicuro di poter galleggiare senza il suo l’ aiuto e incoraggiamento. Eppure, poco dopo il nostro arrivo, accadde qualcosa d’ imprevedibile che spinse ad affrontare quelle acque burrascose.
«Quei nuvoloni laggiù non promettono nulla di buono! Tra poco scoppierà il temporale. Cerchiamo un riparo tra quelle rocce laggiù.» disse, esortandoci a correre.
Ci muovemmo all’ unisono convinti dall’ ennesimo lampo caduto nei pressi e dal susseguente frastuono del tuono.
Avevo stretto amicizia con una delle allieve e conoscendone l’ indole pacata e tranquilla la esortai: «Sbrigati Tanaka. Tra poco scoppia il finimondo e se non ci mettiamo in fretta al riparo ci bagneremo come pulcini.»
La sentii borbottare qualcosa in risposta ma non capii.
Corsi ancora una decina di metri e solo quando mi accorsi che non mi stava seguendo mi voltai per verificare e inorridii: Tanaka era caduta nel fiume.
La mia compagna possedeva un gattino che la seguiva ovunque andasse e chissà come il fiume in piena stava per travolgerlo e trascinarlo via.
Per impedire il peggio Tanaka si era precipitata sulla sponda ma, in quel momento, il fiume era tracimato e li aveva travolti.
Il sangue mi si gelò nelle vene. La vidi annaspare e combattere con la corrente che la trascinava via. Stringeva il suo gattino sul petto e avendo solo un braccio libero non poteva nuotare per tornare a riva. In quel momento, pensai, era condannata a una morte certa. Erano tutti troppo lontani e se anche avessi urlato con il fragore del fiume e del temporale nessuno era in grado di sentire.
Mi vennero le lacrime agli occhi.
“Niente e nessuno può salvarla! O forse no…” Quel pensiero improvviso mi gelò il sangue nelle vene! “ Sono l’ unico che può fare qualcosa!”
Le gambe mi tremarono e mi vergognai di me stesso: aspirante samurai con un timore enorme delle acque.
Mi incitai tra me: “Forza! Non stare lì imbambolato a guardare la tua amica annegare. Fai qualcosa, prima che sia troppo tardi. Affronta i tuoi spauracchi!”
Il cuore mi esortava, la mia coscienza mi spingeva, ma i piedi, le gambe erano come di piombo e si rifiutavano di reagire. Furono istanti interminabili. Dove trovare l’ audacia di gettarmi in acqua? Io, che stentavo a mantenermi a galla!
In quei tragici momenti, mi sovvennero le parole che la Grande Sharez aveva pronunciato in seguito a una mia specifica domanda, durante una lezione: « E se il coraggio mi venisse a mancare di fronte alla spada di un nemico?»
« Cosa credi che sia il coraggio? Una dote innata di tutti i guerrieri? Anche di quelli che dimostrano più valore sul campo? Oh no, Aiashi! Nessuna creatura al mondo nasce coraggiosa per natura. Tutti proviamo l’ emozione della paura davanti a un avvenimento che ci appare più grande delle nostre possibilità e quindi insormontabile. Occorre saper gestire quest’ emozione e dominare i nostri peggiori timori. Solo così impareremo a essere degli ottimi guerrieri. Ricorda sempre: non esiste coraggio, se non esistesse prima la paura.»
Quelle parole pulsarono nella mia mente, simili al lampeggiare in cielo durante il temporale. Allora, i piedi mi si sbloccarono e compii quel gesto folle che mi portò a buttarmi nel fiume
Le acque gelide avvolsero il mio corpo in un abbraccio che mi mozzò il fiato. Resistetti all’ impulso di voltarmi e tornare a riva e le braccia e le gambe si mossero d’ istinto portandomi nella direzione in cui avevo visto annaspare Tanaka. Non fu un’ impresa facile combattere contro la forza della corrente e dovetti impegnare ogni stilla di energia per raggiungere la mia amica.
« Prendi un respiro profondo e trattieni il fiato. — mi consigliava il maestro Hiroshi durante le lezioni di nuoto. — Nello stesso tempo, procedi a bracciate vigorose con la testa immersa nell’ acqua.»
Era una cosa contro natura. Inaudita per me che avevo sempre provato terrore per l’ acqua! Dovevo prendere il fiato, trattenerlo e immergere la testa nell’ elemento che più temevo.
Era una cosa folle! Infatti, durante le lezioni non mi ero mai riuscita.
Ma l’ urgenza del momento e l’ istinto, mi portarono a mettere in pratica gli insegnamenti del maestro e mi ritrovai a nuotare sotto il pelo dell’ acqua, senza mandarne giù un solo sorso. Tre bracciate con la testa sotto, quindi riemergevo e respiravo; tre bracciate e un respiro, così di seguito. E all’ improvviso mi ritrovai Tanaka tra le braccia.
La poverina era esausta. Mi accorsi di averla raggiunta appena in tempo. Tossiva e sputava l’ acqua fino allora ingerita. Era ormai senza fiato e difatti stava per perdere i sensi. Meglio così, pensai, girandone il corpo in modo da poterla trascinare a riva. Il gattino glielo posizionai sul ventre, tanto, avevo constatato, che per il terrore si era aggrappato con gli artigli al kimono della sua padroncina. Non sussisteva il pericolo di perderlo.
Non so come riuscii a tornare a riva, ma quando sentii il terreno sotto i piedi, credo proprio che sarei crollato in acqua se non fosse stato per il sostegno del maestro Hiroshi e dei miei compagni.
Ricordo ancora lo sguardo orgoglioso e l’ annuire ammirato del mio mentore.
Ricordo le pacche sulle spalle dei miei compagni e allora intuii di essermi conquistato la stima di tutti.
Oggi, posso solo dire grazie maestro Hiroshi per avermi aiutato a diventare l’ uomo e il samurai che sono.
« Ho saputo dell’ impresa che hai compiuto al fiume e sono qui per congratularmi con te.» mi disse quel giorno stesso la Sharez e io arrossii, come al solito.
« Tuttavia, non vorrei che tu ti sentissi invincibile e ti crogiolassi troppo sugli allori. Sono qui anche per constatare a che punto sei con l’ addestramento.»
Non mi diede il tempo di rispondere e fece una mossa improvvisa cercando di farmi l’ equilibrio. Ma questa volta non mi trovò impreparato, anzi, resistetti a tal punto, che lei mi scrutò sorpresa. Feci per attaccarla a mia volta ma Hashiko mi fermò e mi sorrise, inchinandosi. Ricambiai il saluto e lei se ne andò lasciandomi impresso quel suo sorriso enigmatico.
Nella tranquillità del monastero, gli anni passarono senza nemmeno rendermene conto, se non per il mio fisico che maturò. Presi coscienza dei cambiamenti avvenuti guardandomi allo specchio. Il riflesso rimandato era quello di un giovane uomo dal fisico possente e dall’ aria vigorosa.
Quel giorno mi girai e mi squadrai, in modo forse troppo vanitoso e mi compiacqui dell’ immagine che lo specchio rimandava. La testa completamente calva, a parte il codino tradizionale che partiva dalla nuca e mi scendeva sulle spalle, metteva in risalto i lineamenti mascolini e regolari e i miei occhi scuri, grandi e obliqui sottolineati dalle folte sopracciglia.
Ero giovane e mi sorpresi a domandarmi se potessi piacere alla Sharez.
Il mio sentimento per lei era cresciuto negli anni alla pari del mio fisico.
Ogni tanto veniva a controllare i nostri progressi e fu proprio durante una delle sue visite che volle mettermi di nuovo alla prova.
Io e miei compagni ci eravamo disposti in due file, gli uni contro gli altri, brandendo i bastoni per la lotta. Avevo per avversario il mio compagno Hakihito e ne ero contento perché era uno dei pochi che più mi resistevano e mi davano soddisfazione.
Lui compì un primo passo ma io lo fermai: « Aspetta! Mi sistemo la cintura!»
Quando rialzai gli occhi c’ era lei davanti a me, che brandiva il suo bastone e mi scrutava con sfida.
Era tanto che non la vedevo e il cuore prese a galopparmi in petto, ma dovetti assumere un’ espressione da ebete, perché lei sorrise, divertita.
S’ inchinò nel tradizionale saluto e partì all’ attacco. Riuscii a placcare soltanto alcuni dei colpi abbattuti di seguito e con estrema vigoria e, quelli che invece andarono a segno, risultarono tutti molto dolorosi.
Avevo tanto a cuore quella splendida creatura, che non reagii nel modo dovuto alle sue bastonate limitandomi a una difesa senza senso e lei se ne accorse, perché s’ immobilizzò con il bastone alto sulla testa.
« Che ti succede, Aiashi? Perché non combatti?»
Sentii il sangue defluirmi dal viso.
«Mi hai colto di sorpresa» balbettai come fossi un ragazzino e mi sentii un babbeo. Avevo gli sguardi di tutti gli altri compagni puntati su di me, compreso quello del maestro Hiroshi e, in quel momento, mi parve che tutti leggessero il sentimento che provavo per lei.
Lo sguardo di Hashiko si fece severo e l’ apparizione, la fanciulla incantevole che avevo davanti un attimo prima, ritornò a essere l’ inflessibile Sharez che dirigeva il monastero.
Abbassò il bastone e me lo puntò sul torace: « Avevo posto grande fiducia nel tuo spirito combattivo. Purtroppo, debbo constatare, che sei un uomo solo nell’ aspetto, mentre nel cuore sei rimasto un ragazzino.»
In quel momento compresi che Hashiko aveva percepito da tempo il sentimento che provavo per lei e lo disapprovava. Stava per voltarmi le spalle, ma la trattenni:
« Ti prego — dissi, ritrovando il mio orgoglio e puntando il mio bastone contro il suo petto. — Dammi un’ altra possibilità e ti dimostrerò quanto ti sbagli. Il mio cuore può essere quello di un ragazzino, ma la mia mente e il mio corpo sono stati addestrati affinché io diventassi un guerriero ed è proprio questo che vorrei dimostrarti.»
Sentii serpeggiare un mormorio di sorpresa tra i miei compagni e difatti mi guardavano tutti con aria sorpresa. Potevo capirli! Avevo osato sfidare il capo del monastero puntandole il bastone contro. Nessuno aveva mai osato tanto e il maestro Hiroshi intervenne indignato.
Hashiko lo fermò con un gesto.
«Non occorre! Grazie, maestro!»
Lui chinò il capo e si ritirò in disparte.
«Combatterai sul serio?» mi domandò imperturbabile.
«Non sono mai stato così pronto e deciso!» le risposi con cipiglio.
Hashiko annuì. Con il suo bastone toccò il mio provocando un sonoro schiocco, poi, partì all’ attacco e, questa volta, reagii di conseguenza.
Ero uno dei più bravi con quella tecnica di combattimento. Rare volte i compagni mi avevano sorpreso e battuto e persino il maestro Hiroshi faticava stentando a prevalere in ogni nostro scontro.
Per un po’ mi limitai a parare e a stoccare qualche colpo, ma solo per farle capire che ero presente e che la stavo studiando. Quando mi furono chiari i suoi punti deboli e quelli di forza, mi buttai all’ attacco bersagliandola di colpi.
Hashiko indietreggiò, sorpresa dalla mia irruenza e dovetti contenermi perché aveva perso l’ equilibrio e, per un attimo, temetti che rovinasse a terra. Per fortuna riuscì a bilanciarsi e, con l’ equilibrio, ritrovò anche tutta la sua grinta. Per alcuni minuti combattemmo senza risparmiarci e senza che nessuno dei due prevalesse sull’ altro. Ogni colpo inferto, veniva immancabilmente parato. Nell’ aria risuonavano soltanto i rintocchi secchi dei nostri bastoni.
Usai tutte le tecniche acquisite nel tempo e consistenti in giravolte veloci, finte e stoccate a sorpresa. Ero consapevole di quanto il mio corpo fosse elastico, per cui mi concessi anche qualche spettacolare capriola in aria per evitare il suo bastone e lei ne approfittò, mettendo a segno una bastonata violenta nelle mie reni. Avvertii un dolore sordo alla schiena, un dolore da togliermi il fiato e, la mia acrobatica esibizione, terminò in una misera caduta.
« Sei forse uno sprovveduto, Aiashi Hamamoto?» mi schernì lei.
Ero ancora accucciato, con una mano appoggiata al terreno e l’ altra che mi premevo la parte dolorante. Avvertivo la collera sobbollirmi e montarmi dal profondo. In quel momento mi sentii in grado di ucciderla. Era riuscita a umiliarmi davanti a tutti i miei compagni. Non potevo sopportarlo. Raccolsi l’ arma che mi era scivolata dalle mani, poi, ebbi uno scatto come una molla e in un istante mi ritrovai in piedi. Senza nemmeno ragionare, con il bastone la tempestai di colpi e finalmente ebbi la soddisfazione di vederla indietreggiare. L’ avevo messa in difficoltà e stava subendo il mio attacco senza altra possibilità se non quella di difendersi. Lo capii dal suo sguardo che era confusa e io dovevo approfittarne disarmandola. Con un affondo più violento degli altri, le fece saltare l’ arma dalle mani, quindi puntai la mia sul suo petto indifeso.
«Mi arrendo!» dichiarò senza fiato e alzando le mani. Ci squadrammo trafelati, i visi arrossati dalla fatica.
Un misto di sentimento di rabbia e di orgoglio, per averla battuta, mi dilaniava.
Ma lei era bellissima e mi smarrii nei suoi occhi. Poi, entrambi scoppiammo a ridere.
« Mi sono sbagliata sul tuo conto. Non sei più un ragazzo!» mi disse, con un tono di voce che non le avevo mai sentito.
La ringraziai con un inchino e la guardai allontanarsi.
15 ottobre 1847
I venti di guerra, sopiti ai tempi di mio padre, iniziarono di nuovo a spirare nei villaggi sparsi nei dintorni, portando di nuovo morte e distruzione, e la Grande Sharez decise che eravamo pronti per scendere in campo.
Ci fu una cerimonia altamente suggestiva, in cui parteciparono i genitori dei giovani guerrieri. Nel momento solenne della nomina, il padre del samurai si presentava recando su di un cuscino le sue armi gloriose e cedendole ufficialmente al suo successore.
Ero felice per la presenza inaspettata di mio padre e quando fu il nostro turno mi si avvicinò recando con sé i suoi doni:
«Questo elmo è per te, figlio mio. — disse, invitandomi ad abbassare il capo per porvi il suo elmo con maschera raffigurante un lupo. Poi sfoderò la sua spada e la tese con la lama in alto.
Era un capolavoro. L’ elsa era incisa magistralmente e sulla lama erano incisi alcuni ideogrammi.” Servitrice fedele fino alla fine”
Era un dono prezioso. Ancor di più se si pensa che me la donò quando era ancora al culmine dell’ attività. Se ne stava privando per me e gliene fui immensamente grato.
« Ne farò buon uso, padre, ve lo prometto e vi renderò orgoglioso del mio operato» gli dissi, mentre una forte emozione mi prendeva alla gola.
Lui annuì: « Ti credo, figliolo!»
La Sharez benedì le mie armi, imponendomi il mio nome da battaglia: “Vento che sibila tra le montagne”
Quel soprannome mi piaceva; il solo pronunciarlo mi esaltava, mi faceva gonfiare d’ orgoglio il petto.
Poi, un coro di ululati si alzò alto nel tempio. Quel giorno erano nati dei nuovi guerrieri samurai e, io, ero uno di quelli.
Mio padre subito dopo la cerimonia, mi prese in disparte e con aria grave mi parlò:
« Figlio, ora ti posso svelare il segreto di cui i samurai della nostra famiglia sono custodi da generazioni. Si tratta della spada di cui ti ho fatto dono. Non si tratta di una lama comune, ma in essa vi è celato un potere straordinario. Ma ricorda, solo se richiamato in modo opportuno questo potere potrà manifestarsi. Sono secoli che il nostro casato tiene celato questo talismano, per impedire che cada nelle mani di chi può farne un uso malvagio e distruttivo. Per questo non dovrai mai svelarne la vera essenza a nessuno, poiché con la perdita della spada, cadrebbe in disgrazia tutto il nostro glorioso popolo e le sorti stesse dell’ impero sarebbero in serio pericolo.»
« Padre, mi sembra un onere troppo gravoso da portare. Credi davvero che possa caricarmi di una simile responsabilità?» domandai, scrutandolo con attenzione.
« Sei stato addestrato per questo. Vuoi forse esimerti dal compito affrontato per secoli dai nostri antenati, prima di noi?»
Mio padre mi scrutava a sua volta e sembrava volesse trapassarmi l’ anima. Ma ormai ero un samurai e sostenni quello sguardo inquisitorio con tutta la franchezza, l’ ardimento e la passione del mio giovane cuore.
«No, di certo!»
Lui annuì e continuò: « A te è ora affidato il segreto e la nostra storia. Porta in alto il nome che ti è stato imposto quest’ oggi e cerca di fare onore anche alla nostra famiglia. Va’ e che la luce della saggezza illumini la lunga e difficile strada che hai intrapreso, figlio mio!»
Salutai mio padre soffermandomi a guardarlo, mentre passava fieramente al piccolo trotto tra due ali di folla che s’ inchinavano al suo passaggio.
Era l’ ultima volta che lo vedevo. Rimase ucciso in un’ imboscata, tesa dal rapitore di mia madre.
Miyako. Una donna bellissima e coraggiosa. Un’ amazzone da molti uomini temuta in combattimento.
Fu Hashiko a convocarmi per darmi la brutta notizia:
«Devi essere forte Aiashi. — iniziò a dire e dallo sguardo intuii. Ricordo che mi si accapponò la pelle — I tuoi genitori sono morti.»
Rimasi come inebetito e lei proseguì: «È difficile persino spiegarti come sono morti ma devo farlo perché è giusto che tu sappia.»
« Sono pronto» mormorai a capo chino.
Forse avrebbe voluto aggiungere qualche parola di conforto ma si schiarì la voce e proseguì;
« Sai che tua madre non poté essere presente alla cerimonia, a causa di un piccolo infortunio che la costrinse a rimanere a casa e quei delinquenti ne approfittarono per rapirla e… — Fece un attimo di pausa ma io avevo già capito dal suo imbarazzo cosa fosse accaduto. Attesi in silenzio che continuasse. Dovevo sapere tutto in ogni minimo particolare. Il pensiero di vendicare i miei genitori si era già fatto strada nella mia mente.
« Venne seviziata senza pietà e il suo corpo oltraggiato fino a ridurla in uno stato pietoso. Poi, attirarono tuo padre in un’ imboscata, lo torturarono e lo uccisero sotto i suoi occhi. Credendola in fin di vita l’ abbandonarono a se stessa ma lei, per la vergogna e il dolore fece karakiri.»
La Sharez tacque. Non avevo mai alzato lo sguardo per nasconderle la mia emozione e la sentii avvicinarsi. Hashiko mi mise una mano sulla spalla: « Mi dispiace molto, Aiashi e se posso fare qualcosa...»
Le fui grato per la sua solidarietà ma avevo bisogno di ben altro ma, in quel momento, avevo solo bisogno di rimanere solo a riflettere.
La guardai, senza più il timore di mostrarle il mio dolore: « Hashiko, congedami ti prego!»
Tentò di trattenermi: « Aiashi…»
« Lasciami andare. Non voglio mostrarti la mia debolezza.»
Lei annuì e io mi potei congedare con un lieve inchino.
Poche ore dopo mi recai al tempio recando con me un’ offerta, che le misi nelle mani. Hashiko trasalì nel vedere di cosa si trattava.
«La Sacra Fusciacca! Perché la dai a me, Aiashi?»
« Devo rinunciare a essere un samurai. Sento mio dovere andare alla ricerca dei delinquenti che hanno ucciso i miei genitori. Per questo te la consegno e, con o senza il tuo consenso, lascerò il monastero.»
La vidi impallidire. Quel lembo di stoffa era emblematico.
Denotava il mio nobile status di samurai, il mio grado all’ interno del contingente e il battaglione al quale appartenevo. Era la fascia che ogni guerriero del nostro squadrone portava fieramente sulla fronte ogni volta che scendeva sul campo di battaglia.
Mi era stata donata durante la cerimonia di iniziazione e, in teoria, non avrei mai dovuto separarmene, se non per qualche grave e improrogabile motivo.
«Gli altri non capiranno e ti condanneranno per aver abbandonato la tua missione.»
« Devo andare, Hashiko. A qualunque costo, ma devo andare.»
La vidi abbassare gli occhi, forse per nascondermi la sua commozione, poi, con appena un filo di voce e guardando la fusciacca, mi sussurrò: « Sono la sacerdotessa di questo tempio e per questo ho deciso, Aiashi Hamamoto, che la tua offerta non verrà considerata un dono, ma solo un prestito. La custodirò per te e quando avrai reso giustizia alle persone che ti erano care, torna, sarò lieta di restituirtela