Vagava e vaneggiava senza rendersi conto di che ore fossero, il dolore al ginocchio lo stava mandando ai matti. Scrutò fuori delle vetrate mezze appannate per cercare di capire se stava piovendo ancora o se Giove pluvio aveva elargito una pausa. Una settimana di pioggia costante, la terra ormai satura d’acqua, diversi i tombini saltati.
Contò gli ultimi euro rimasti di una giornata fiacca, noiosa e dannatamente lunga.
"Il commercio è morto, questa città sta per tirare le cuoia". Considerato che l’ora di chiusura era prossima, volle avvantaggiarsi
Si alzò dallo sgabello, ma la fitta al ginocchio lo costrinse a tornare seduto, gamba indolenzita, forse qualche linea di febbre, rosso in volto.
Pensare che anni prima avrebbe potuto saltare dall’altra parte senza il minimo sforzo, adesso si reggeva in piedi a stento.
" Corno del menisco rotto o qualcosa di simile".
Operazione in laparoscopia e day hospital, si era fatto convincere dall’amico medico, "Una cavolata" gli ripeteva, eh sì, una cavolata un par di zerri marinati, al posto del ginocchio aveva una palla di sughero ricoperta da maglia di ferro con dentro i chiodi.
Un’altra fitta improvvisa gli annebbiò la vista, sudava dal dolore.
Estrasse dalla tasca il cellulare per chiamare casa, aveva bisogno di una mano.
" Pronto Matteo, sono io. Sto chiudendo, ma ascolta, fammi un favore vienimi incontro perchè non mi sento bene e non ce la faccio, ho fitte continue.
" Pronto, va bene, dammi 10 minuti " risposi.
Mi infilai gli anfibi senza legarmi le stringhe, presi il primo giaccone a caso dall’armadio e senza sincerarmi se piovesse o meno, uscii di casa, tanto ero già in mimetica.
Mio padre stava male, realmente. Conoscendo la tempra e l’orgoglio, se era arrivato a chiedermi aiuto, era prostrato, stare a casa non rientrava nei suoi piani, testardo fino al midollo.
Aria fresca, si stava bene fuori, ma pioveva a secchiate.
Stagione ideale per stare sul divano con Elisa, film in dvd, copertina e relax.
Arrivai in negozio fradicio, occhiali appannati, grondavo acqua come una spugna vecchia, forse qualche pesce rosso nei calzini. Tolsi il giaccone, cercando di capire dove diamine fosse mio padre.
Lo chiamai, ma non ebbi risposta, sarà mica svenuto? Mi diressi nel retro bottega e lo vidi là, piegato dal dolore, mi prese un mezzo infarto, giuro.
Era bianco in viso, fece un segno con la mano, non aveva forza nemmeno di parlare.
Presi un paio di coperte dallo scaffale per approntare un giaciglio, volevo farlo accomodare ed alzargli le gambe. Ero indeciso se chiamare o meno l’ambulanza.
Papà, parlami, dimmi qualcosa, raccontami oggi chi è venuto.
" Matteo, tu sei stato il dono più bello che il cielo ci abbia donato. Anche se tua madre non ti ha visto crescere, di certo ti sta vedendo da lassù e sarà felice. Sai da bambino, per farti addormentare, ti cantava "Somewhere over the rainbow". Purtroppo, lo hai visto, la malattia non le ha dato scampo. Ti amava moltissimo, come me del resto".
Mi bloccai di scatto, come pietrificato.
Mio padre, un carattere forte, autoritario, che si lasciava andare alle emozioni? ". Non volevo credere a quello che sentivo, lo feci alzare in più riprese, volevo assicurarmi stesse bene. Da quanto era sudato, aveva intriso la maglietta della salute, si sarebbre buscato un colpo di freddo, così presi una coperta dallo scaffale e lo imbacuccai come un infante.
La pioggia cadeva più forte di prima.
Passo passo lo portai alla macchina, intonando a bassa voce alcuni versi della canzone.
Se mamma ci potesse vedere sarebbe contenta del legame che abbiamo, peccato non averla con noi, peccato.
Detti gas e facemmo ritorno a casa.