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Eppure ti ho tanto amato... di cecitą

Dramma

Eppure ti ho amato tanto. Quanto ti ho amato e desiderato nelle mie fantasie di bambina e nelle mie pubere adolescenziali.

In paese non c’ era donna che non ti ammirasse con il tuo fisico slanciato e atletico, il portamento elegante e fiero, la barba volutamente incolta che faceva da cornice al tuo volto, la pelle dorata e i capelli scuri che a tratti cadevano su quegli occhi così neri, così profondi.

Eri bello e impossibile quando, con lo sguardo da simpatico mascalzone e la sigaretta tenuta in bilico sul bordo delle tue labbra carnose, ammiccavi alle signore all’ uscita dalla messa. A quelle stesse signore che strattonate dai mariti ricambiavano il tuo sorriso con un timido abbassarsi dello sguardo.

Ischitella è un paese contadino dell’ entroterra pugliese distante pochi chilometri dal mare. Un piccolo centro rurale cresciuto attorno a una grande e immobile piazza antica. Quella piazza sulla quale troneggia la chiesa, sovrastante il bar del paese, la banca, la caserma dei carabinieri, il palazzo municipale e l’ ufficio postale. Tutta la vita del paese ruota su di essa ospitando oltre al mercato settimanale pure l’ annuale festeggiamento del santo patrono. E' di case bianche di calce e di scale consumate dai passi, riverbera nel sole cocente e devi chiudere gli occhi per non farti abbagliare. Il bianco accecante può assomigliare alla purezza, ma forse è solo il simbolo di una staticità centenaria.

Poco conta se siamo giunti negli anni '60, qui il tempo pare essersi fermato arrestando quel progresso che la radio diffonde tra musica e notizie. A Ischitella le donne si vestono ancora con abiti lunghi, non escono da sole e se maritate, non viene concesso loro di parlare con altri uomini che non siano il marito o il padre.

Rammento come fosse ieri quel bar dove eri solito trascorrere le lunghe sere d’ estate. Quelle serate in cui noi, giovanissime ragazze, potevamo ancora permetterci di correre in piazza dopo il vespro, preziosa occasione, per me e le mie amiche, per osservarti da lontano, fantasticando.

Eri ammirato e ambito da ogni donna del paese, giovane o meno che fosse. A dire il vero anche dalle donne sposate. Sposate sì, in quanto capitava spesso di ascoltare i discorsi delle comari intente a raccontare di questa o di quella tua avventura con donne maritate senza avere guai con i mariti gelosi. Già, non v’ erano danni da gelosia in quanto oltre che giovane e bellissimo eri anche lo stimato e temuto picciotto di Don Gennaro, un uomo di rispetto al passaggio del quale tutti, ancor oggi, si levano il cappello.

Eppure ti ho amato tanto. Quella sera in cui, complice la festa del paese e la luna piena, mi hai sorriso. Avevo sedici anni allora e quella sera, complice una mia amica, sfuggimmo al controllo delle nostre madri. La festa era allietata da una musica che invitava a ballare e noi ballammo. Rammento le risate fra me e Assunta mentre tenendoci per mano scatenavamo le gambe nude in una sfrenata danza per poi, sfinite e ferocemente felici, correre via nel timore di venire scoperte e rimproverate. Correvamo mano nella mano su per le stradine deserte del paese quando d’ un tratto sei apparso da dietro un angolo bloccandoci la strada. Il tuo sguardo mi ha penetrato da parte a parte provocandomi una scossa nel ventre mentre con la mano suggerivi ad Assunta di allontanarsi e lasciarci soli. Ricordo come fosse ieri quella sera di mezza estate, la tua voce calda, le forti mani che mi accarezzarono prima il viso, poi i seni e infine le cosce mentre mi sollevavi la leggera gonna cogliendo la mia purezza e spogliandomi del mio essere fanciulla. Fosti violento nel possedermi, quasi brutale, e così lontano dai miei sogni di bambina nei quali era la dolcezza che avrebbe dovuto cogliere la prima volta il mio fiore. Provai paura e dolore ma tale era il mio desiderio di te da mutare la sofferenza nella gioia dell'essere tua.

Fu in tale occasione che rimasi incinta di Maria, quella bambina che non hai mai accettato in pieno per via del tuo desiderio di un figlio maschio che portasse il tuo nome. A dire il vero a volte ancora mi domando se mi sposasti per amore, per il figlio che portavo in grembo o perché mio padre a quei tempi era sindaco del paese, amico e devoto al tuo padrone Don Gennaro. Mio padre che, quando scoprì che ero rimasta incinta, si infuriò persino con mamma accusandola di non essere stata capace di educarmi e di controllarmi adeguatamente. Mia madre che, alla notizia della mia gravidanza, dapprima si mise a piangere, poi con dolcezza mi abbracciò promettendomi totale protezione.

Fu il giorno dopo aver avuto la notizia della mia gravidanza che mio padre ebbe un incontro con Don Gennaro qui, a casa nostra. Tu eri fuori dalla porta in attesa, fumavi nervosamente una sigaretta dopo l’ altra mentre io di sopra, costretta in camera mia, sbirciavo dalla fessura dell’ uscio. Da quella posizione l’ ascolto era difficoltoso se non impossibile, riuscii solo, ad un certo punto, a sentire il babbo e Don Gennaro discutere animatamente, poi più nulla. Passò un tempo infinito poi la porta si aprì e uscirono venendoti incontro. Don Gennaro ti lanciò un’ occhiata mentre mio padre, cingendoti con le braccia, fece gesto di baciarti le guance… il cuore pareva esplodermi di gioia: l’ uomo in assoluto più ammirato dalle donne e rispettato dagli uomini sarebbe divenuto mio marito.

Ti ho amato di vera cecità, al punto da considerare malelingue coloro che ti additavano come un poco di buono, un violento e un fedifrago e ho seguitato ad amarti anche nelle notti che passavi fuori casa senza darmi spiegazione alcuna. Ho continuato ad amarti mentre lavavo macchie di rossetto o di sangue dalle tue camicie, senza domandarmi se quei rossi fossero d’ altro amore o d’ altro dolore.

Ho persino accettato di dormire con quella pistola che mai abbandonavi riponendola la sera sotto il guanciale, senza mai domandarti se il sangue sui polsini delle camicie fosse veramente di animali e non di cristiani.

Ti ho amato anche quel giorno in cui rientrasti nel tardo pomeriggio mentre io ero intenta a governare la scrofa e i suoi piccoli. Ti avvicinasti e io non potei fare a meno di vedere quella macchia di rossetto sul collo, appena sotto l’ orecchio destro. Colta dalla rabbia scagliai il secchio a terra e imprecando ti chiesi chi fosse l’ altra. Tu per tutta risposta mi desti un ceffone, un manrovescio talmente violento da farmi barcollare e cadere a faccia in giù nella porcilaia. Ti allontanasti senza nemmeno una parola, mentre io, sporca di fango ed escrementi mi risollevavo lentamente, piangendo. Piansi sì, perché non era la prima volta che le mani del mio principe non di carezze mi sfioravano il volto. Piansi anche quella volta che specchiandomi una mattina vidi una donna consumata dal lavoro in casa, dall’ accudire alle bestie e dal prendermi cura di te e della nostra bambina. Tu, così perfetto grazie alle camicie pulite e alle mille cure che ti riservo, ed io lì, come se fossi la serva in paziente attesa della messa della domenica quale unica occasione per indossare il vestito buono e sentirmi finalmente principessa col mio principe.

Eppure ti amavo tanto, al punto da scusare i tuoi impeti di rabbia e di negare, oltre ogni evidenza, la presenza di altre donne nella tua vita e nel tuo letto.

Antonio, ti ho amato di cecità, ed ora che è tua la faccia sbattuta nello sterco della porcilaia mentre ti spoglio dei vestiti sporchi del tuo di sangue mi rendo conto di quanto sia stata sciocca, illusa, follemente innamorata di un uomo totalmente privo d’ amore se non verso se stesso.

Ti ho amato sino ad oggi, quando, impegnata a cavare le patate dal campo per la cena, ho udito l’ urlo disperato della nostra bambina. Ha solo quattordici anni la nostra Maria, quella “ femmina” che non hai mai voluto accettare perché era un figlio maschio che aspettavi. Rammento ancora l’ urlo di gioia che liberasti sentendo il pianto del nascituro ed il tuo sguardo spento di cocente delusione quando la levatrice ti invitò ad entrare per conoscere tua figlia. Tu, per tutta risposta, uscisti di casa sbattendo la porta, e rientrando solo il giorno successivo.

Ci abbandonasti, mi abbandonasti in uno dei momenti importanti della vita, nel momento per me più importante. Eppure nemmeno allora te ne feci una colpa, volli comprendere le tue ragioni per quel figlio maschio mancato.

Maria urlava invocandomi, ho gettato a terra la gerla facendo ruzzolare le patate ovunque mentre correvo a più non posso in suo soccorso.

Sono entrata in casa di corsa chiamandola e vi ho visti una fronte all’ altro, lei costretta al muro, piangente, e tu che con lo sguardo di un’ animale in calore gli strappavi gonna e mutandine. Le tue mani, quelle mani che tanto avevo amato, una sul suo seno acerbo e l’ altra intenta a slacciarti i pantaloni. Dentro di me ho scoperto una furia che non avrei mai creduto. Ho urlato il tuo nome e tutta la mia rabbia costringendoti a mollare la presa, e tu mi hai rifilato l'ennesimo ceffone che mi ha scagliata sul pavimento.

Eravamo lì, una accanto all’ altra, madre e figlia livide, piangenti, sottomesse mentre imprecavi con disprezzo il mio nome si stava allargando una rosa bluastra dovuta ad una violenta pressione.

Ero terrorizzata e intimorita, accasciata su quel pavimento dove giaceva piangente nostra figlia, MIA FIGLIA. D’ un tratto qualcosa mi è esploso dentro. Ho urlato come una belva ferita mentre la mia mano sentiva il freddo metallico della tua pistola caduta a terra, accanto ai tuoi pantaloni, l'ho afferrata con forza ed ho premuto il grilletto puntando al sogghigno che troneggiava sulla tua faccia.

Maria ora dorme, povera bambina mia. L’ ho abbracciata a lungo, accarezzando quell'esserino singhiozzante e tremante che ora, sfinito, dorme.

Non sei morto con la paura dipinta sul viso, il ghigno, su quello che è rimasto della tua faccia è di assoluto stupore. Io, la serva e schiava, la donna succube di questo amore, ti ha sparato in pieno viso. Io, sì.

Basterà non dare da mangiare ai maiali per un intero giorno e certamente faranno tesoro del tuo bel viso. Per quello che rimarrà di te e per la pistola è già pronta una profonda fossa, lontano da casa.

Addio Antonio, vado a pulire il sangue rimasto sul pavimento, domani nulla di te sarà rimasto e per chi ti verrà a cercare sarà la tua serva ad accoglierli, preoccupata per la tua ennesima, ingiustificata e prolungata assenza da casa.

Un profondo sospiro mi coglie mentre ammiro le stelle danzare attorno ad uno spicchio di luna che mai come stanotte mi sembra amica le sorrido quando mi rendo conto che non c'è più la tenebra nei miei occhi ma la luce.

Di nostra figlia Maria.


Moreno Tonioni 25/11/2015 20:01 2492

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Nota dell'autore:
«L'immagine a corredo č opera di Saturno Butto»

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