Ho aperto gli occhi. Intorno il buio è rotto da quel po’ di luce che filtra dalle persiane chiuse. Tra qualche minuto la sveglia suonerà, come sempre, alle 5,15.
La spengo, non serve che suoni. Intanto allontano le coperte. Il tepore del mio letto evapora presto, troppo presto e mentre mi siedo sul letto, le mie mani corrono verso la mia vecchia vestaglia.
Vado alla finestra e la apro. Lascio che l’aria pungente mi oltrepassi e si impossessi della mia camera, di quella che è tutta la mia casa: una camera sola, dove la sera i fumi della cucina accompagnano il mio sonno.
Il caffè è quasi pronto e mentre aspetto, finisco di vestirmi. Tra poco lei sarà qui. Come ogni mattina, puntuale. Verrà a prendermi con la sua Panda, riluttante. Lei c’è. C’è sempre stata, per me.
Devo tutto a lei, la casa, il lavoro e fra qualche anno la pensione. Grazie a lei.
Non ho potuto scegliere, quando sono tornata. Ho accettato senza alcuna esitazione: tutto sarebbe stato meglio di quell’inferno.
E le guardo le mie mani: sempre gonfie e screpolate. La colpa è dei guanti: non le fanno respirare. Pulisco gli uffici. Non era quello che volevo, ma i sogni sono come le bolle di sapone: volano in alto e poi scoppiano…
Ero bella da ragazza, me lo dicevano tutti. Volevo fare l’attrice, lo volevo proprio. Lasciarmi quella miseria alle spalle, potermi comprare tanti vestiti e non avere più fame. Quando parlavo così, mia madre abbassava gli occhi e scuoteva la testa.
Piangeva, mia madre, quando mi vide partire con tutte le altre, per quella città, così lontana. Cercavano ragazze per un film. All’inizio avremmo fatto solo le figuranti e poi chissà. Non le capivo le sue lacrime: avrei fatto l’attrice, guadagnato bene e se ero abbastanza fortunata potevo anche incontrare un uomo che mi sposava e mi trattava come una principessa.
Me le ricordo ancora le risate e le canzoni cantate a gran voce durante quel viaggio. E mi ricordo anche la paura, lo sconcerto di quella prima sera: compresi allora le lacrime di mia madre.
Non capivo cosa dovevo fare. Non capivo perché mi trovavo su quel marciapiede vestita come una prostituta, con quei fari che mi ferivano il cuore e le lacrime salate e la voglia di scappare. E le botte e gli insulti, quando provai a dire che c’era un errore: io dovevo fare il cinema.
Il timbro terribile di quella risata, ancora attraversa i miei sonni e sono passati trenta anni.
Ero in vendita, non ero altro che un corpo. Imparai presto a tacere, a non ribellarmi più: quelle che ci avevano provato venivano inghiottite dal nulla. Corpi senza nome, senza identità. Dignità violate.
Volevo solo scappare, così imparai a tenere le briciole per me. Le nascondevo in una vecchia calza, sotto il materasso di quello stanzino che ospitava me e altre tre come me. Ogni giorno contavo le mie briciole: ogni notte avrei potuto aggiungere una briciola in più.
Mi accorsi di essere incinta dopo sette mesi di quella vita. Non lo so chi era stato. Come avrei potuto? Non c’erano facce, solo voci che chiedevano: - Quanto vuoi? –
Non lo dissi a nessuno. Avevo paura, stavo male e avevo paura. Cercai di mimetizzare la mia condizione. Per tutti ero solo ingrassata.
Una mattina mi svegliai scossa da onde che mi prendevano e mi lasciavano senza fiato: stavi arrivando. Fui fortunata, quella mattina, ero sola.
Misi dei vecchi giornali sul pavimento, liberai il letto dal materasso per potermi attaccare alla sua base, avvicinai a me un asciugamano pulito e attesi. Non aspettai molto, mi scivolasti fuori senza un vagito, neppure io gridai.
Mi guardavi con quel tuo faccino rugoso. Si, sono sicura che mi stavi guardando cercando di imprimere nella tua acerba memoria i miei occhi smarriti. La cosa più difficile fu tagliare il cordone, ma lo avevo visto fare a mia madre così tante volte che tutto andò bene. Ti pulii e ti avvolsi in una coperta, continuavi a guardarmi senza piangere.
Era affollato, quell’ospedale, un via vai continuo di gente. Non mi notava nessuno, nessuno si occupava di quella ragazza con il suo piccolo fagottino in braccio. Dovevo scegliere un posto, un posto giusto. Lo trovai, c’erano i distributori di bibite e un piccolo tavolo. Ti appoggiai sul quel tavolino.
Mi voltai a guardarti, e lo so, anche tu mi stavi guardando. Quando uscii da quell’ospedale cominciai a correre, stavo scappando.
Non smisi di correre sino a quando non arrivai al mio paese. Ma non tornai a casa mia, andai da Anna.. Non mi chiese nulla, mi accolse e basta.
E oggi compi trent’anni, figlio mio. Non saprò mai che uomo sei diventato, ma so che ti porti nel cuore il mio sguardo smarrito. Oggi lo racconterò ad Anna.