Non c’è parola che possa convincere il mondo, né occhio a guardare uno spazio spento.
L’attesa è vana e del male ne ho paura. Soffro di un disagio sconveniente, quello che dà pace ai desideri, dove le rinunce respirano tranquille e la quiete è nebbia che sfoltisco a colpi di coltello.
Infrangere i dubbi e tentare di riprendermi l'equilibrio perso, mi fa sentire estranea alla vita, mi fa capire che l’attimo può dar sfogo ad un rapido movimento di pensiero, come un uragano e la sua origine in natura, masse intense di umido tormento che danno forma al pianto.
Mi chiedo perché le lacrime hanno il potere di intorpidire ogni riflessione, hanno la capacità di gettare il sasso nell’acqua stagnante e poi farlo scomparire. Il sasso sparisce nel fondale come un pensiero che accompagna la sua fine. Arriva il momento di chiedersi perché il senso di appartenenza a ciò che mi circonda sta sfumando alludendo a ciò che perdo lentamente e lascia tracce d’inquietudine che la mente non ha voglia di seguire. Mi piego all’angoscia, cedo alla fragilità sentendomi schiava della simulazione. Continuo a fare tutto con il senso del dovere, tutto nella meccanicità del giorno, ingranaggio di albe e tramonti senza tregua, dove rincorro luce e buio e dove il tempo m’infligge il suo castigo.
Ma la sofferenza dove alberga? S’annida sistemando le radici nel terreno della paura, o si rifugia semplicemente nelle corse sfrenate da un campo all’altro dell'attesa? Mi sembra d’aver messo tutto in una lista di aspettative trasversali, di sbieco alla ragione, quella ragione che sa di aver perso terreno e che bussa alle mie porte per mendicare consapevolezza. Se sarò prudente con me stessa interpellerò sapientemente la speranza, la cercherò nei meandri della mia paura invitandola a crearsi spazio, inalando i miei più reconditi desideri. In caso contrario il prezzo da pagare sarà caro. Se non sarò capace di rassettare il mio tormento, soccomberò e basta. Ecco perché affronto il dubbio: tra il male che l’essere umano sa seminare, la raccolta impietosa dei suoi frutti e l’incapacità di reagire, facendo scudo con l’inadeguatezza.
Potrò fuggire dal male? Riuscirò a raccoglierlo da terra e dissolverlo nel vento? Farò tesoro ancora dei miei sogni?
Cercherò solidarietà per rafforzare i pensieri, cantando nelle piazze la mia rabbia, mi convincerò che lo sdegno, trascritto in un pentagramma di note, che gli anni hanno segnato sulla pelle, lo si può anche cantare. E’ un’evoluzione di una qualunque vita che patisce l’esplorazione dei propri sentimenti e ne richiama le sue forze. E’ qui che il tempo dovrà arrestarsi e convergere la sua clemenza con il mio coraggio.
Sto scrivendo seduta sul mio letto ed il mio cane sonnecchia accanto a me. I suoi occhi si aprono ad intermittenza e convinti mi osservano pieni d’ amore. Nel suo sguardo noto tutto ciò che il mondo mi nasconde.