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Una laurea in giurisprudenza, mah!

Amore

Marco, 38 anni, ho girato mezza l’ Italia. Una laurea in giurisprudenza, qualche esperienza di barman, commesso di Outlet, due anni volontariato in una associazione di consumatori. Milano, la mia ultima città e dalla quale e della quale vi parlerò. Una moglie bellissima, dolcissima ed elegantissima, Serena. Il lavoro; beh un colpo di culo mi ha fatto ritrovare impiegato in una azienda che aveva molti interessi all’ estero: Grecia, Romania, Francia ma anche Italia. La mia laurea ha permesso che io entrassi in staff, in prova ormai da troppi anni però, nell’ ufficio legale della società. Ultimo arrivato ancorché fedele e puntuale da 6 anni ormai, ma senza alcuna garanzia contrattuale. Conoscete quelle formule che un tempo si chiamavano co. co. co. poi co. co. pro poi tutele crescenti insomma una fregatura.

Serena, ogni mattina usciva di casa presto per recarsi al suo lavoro presso un istituto di bellezza, di quelli frequentati da vip e personaggi politici quando non impegnati a curare i nostri interessi e diritti, cioè mai . Uno stipendio discreto il suo, modesto il mio.

Ad ogni buon conto, questo ci ha permesso di contrarre matrimonio, di prendere una casa in affitto e qualche seratina con amici al pub. Quel maledetto giugno di fuoco, un caldo bestiale; Milano è così. Io ero in ferie già da un paio di giorni e quindi approfittavo del tempo libero per uscire di buon ora, accompagnare mia moglie al lavoro e sbrigare un po’ di cose, le solite cose che riguardano la routine quotidiana di una famigliola medio borghese.

Obsoleto come termine, beh si ma non avevo altro per le mani.

Mia moglie mi anticipò dirigendosi alla macchina mentre io mi fermai nel portone per recuperare la posta. Aprii la cassetta e fra le varie pubblicità scorsi una lettera con il logo della società per la quale lavoravo.

Verbo lavorare, prima coniugazione, modo indicativo, tempo imperfetto; molto imperfetto, già.

Non diedi peso a quella busta per cui la infilai nel borsello dimenticandola. Raggiunsi mia moglie e la invitai, data l’ ora che lo consentiva, a fermarci al bar per gustare un buon caffè.

Poi l’ accompagnai sul posto di lavoro. Ritornai a casa, mi misi un po’ in libertà e recuperai tutto quanto nel borsello. Aprii quella lettera e iniziai a leggere. Il gelo, ad un tratto, pervase la mia schiena, le mani iniziarono a tremare e forse anche le palpebre e le labbra. Avevo necessità di sedermi per meglio realizzare. Rilessi più volte quella lettera sperando che miracolosamente mutasse .Non mi ero sbagliato affatto. Ero stato messo in cassa integrazione.

Mi passarono dinanzi immagini di bollette scadute, delle rate della macchina non onorate, del canone d’ affitto sospeso e poi lei… Serena. La paura di perderla era così forte che cercavo di prepararmi un discorso. Non sapevo come dirglielo . Non era colpa mia di certo ma, qualcosa mi faceva sentire fortemente in difetto. D’ altronde c’ eravamo conosciuti nel suo paese, vicino Bologna, dove avrebbe avuto opportunità di lavoro anche migliori ed io, invece, la costrinsi quasi a seguirmi per andare a vivere in città, dimenticando forse, o non considerandolo affatto, che, spesso se non sempre, la qualità di vita è di gran lunga migliore in quei paesini dove la gente si saluta e si conosce tutta.

Pensai al peggio. A cena così misi la lettera sul tavolo e Serena con assoluta calma la prese ed iniziò a leggerla. Con una mano, gentilmente mi accarezzò e, con un leggero ma sincero sorriso mi invitò quasi a non pensarci, a farmi credere “ vedrai ce la faremo”. Passarono i giorni, i mesi ed arrivammo ad una anno. Le liti fra noi incominciarono ad essere frequenti, condite da rinfacci. Una coppia che, per la prima volta messa alla prova, si sgretolava e scioglieva come neve al sole.

Una vita impostata male, scelte azzardate o forse solamente la donna sbagliata. Da allora, ho campicchiato con lavoretti un po’ qui e un po’ là, ma senza alcuna garanzia e poco molto poco trasporto. Il mio pensiero era sempre lì; Serena. La vedevo ogni giorno sempre più estranea ma maledettamente bella. Una mattina, molto disoccupato, decisi di farle una sorpresa sul lavoro e, ormai sprovvisto dell’ auto necessariamente venduta, con un vecchio monomarce uscii e quindi mi avviai . Percorsi mezza città e raggiunsi il suo posto di lavoro. Altra doccia fredda .

Un cuore in pezzi ed anche quei pochi sogni che ancora si arrampicavano nella mia mente sparirono. Qualcuno aveva preso il mio posto di marito ed amante. Ci rivedemmo casa, in serata, io e Serena. Uno sguardo ed un sorriso bastò per cancellare le nostre vite; l’ una dall’ altra. Senza dire una parola, quasi a confermare l’ errore inizialmente commesso, una porta che si chiudeva e non l’ ho vista più.

Giorni sempre più difficili da buttare giù. Lavoretti impossibili eppure < cazzo sono un laureato> dissi.

Ennesimo trancio di pizza, quella sera, e mentre sorseggiavo una birra squillò il mio cellulare; vi sembrerà strano ma il mio cellulare squilla, non canta o emette suoni strani.

- Ciao sono Giulio - esordì qualcuno dall’ altra parte

- Giulio chi - dissi io.

- -Giulio, ricordi compagno di corso ad Antropologia Criminale..

- -Ah adesso ricordo- mentre pensavo a come si fosse procurato il mio numero.

Ai tempi dell’ università ci frequentavamo per la nostra passione nello sport e la frequentazione di palestre.

- Marco vorrei vederti e parlare con te di una cosina, ci vediamo da me? Ho una palestra in via Gorizia, incontriamoci domani alle 10, se ti va.

- Ok, mi va, a domani - dissi.

Frastornato ancora per la telefonata pensai fra me e me < ma si, tanto non ho nulla da fare domani, al limite farò un po’ di palestra gratis>

Alle dieci in punto era da lui.

Giulio, fisico possente, come sempre, sorriso aperto e ben augurante.

Superati i convenevoli, mi fionda subito il suo progetto di entrare in una gestione franchising di palestre dedicate a madri impegnate e con annessi servizi di intrattenimento per bambini dai tre anni in su.

Io con i bambini ci ho sempre saputo fare, un po’ meno con le madri e poi ero arrugginito . Dopo alcune settimane il progetto andò in porto. Le dovute licenze, i programmi da seguire, i corsi da espletare, ed in meno che non si dica, mi ritrovai a gestire con altre persone ben 35 monellacci. Uno in particolare, Luca .

La vita non era stata generosa con lui. Una strana malattia dalla nascita, ormai aveva 6 anni, gli aveva consumato un arto di circa 8 centimetri rispetto all’ altro. La madre, Silvana, veniva lì più per lui che per se stessa. Voleva solamente che socializzasse e superasse quell’ handicap con il gioco ma, anche con la grinta. Ogni giorno che passava Luca si affezionava sempre di più a me. Ero il suo compagno di gioco; il suo trastullo. Vedevo che giocava tanto e ogni volta prima di affrontare gli amichetti mi guardava, come volesse chiedermi se fosse giusto o meno. Io, con un quasi paterno gesto di assenso, lo invitavo a buttarsi nella mischia. Era felice e sorrideva. Silvana era felice e sorrideva. Io ero felice ma… imbranato.

Una sera ad una cena di gruppo ci sedemmo vicini io e Silvana. Separata, dopo la nascita del figlio da un bastardo che non ne volle sapere ne di lei ne di Luca, si ritrovò a raccontarmi la sua vita ed io ad aprirle il mio cuore. Quel cuore, dopo due anni, è lo stesso di oggi; lo divido con lei, Luca e Silvio un frugoletto di dieci mesi. A Milano si chiamano tutti Silvio…

luciano capaldo 27/08/2015 09:11 1107|

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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