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Il linciaggio

Sociale e Cronaca
Già da un quarto d'ora Giuliano si aggirava irrequieto davanti alle vetrate della grande biblioteca, aveva già finito le sue canoniche 2 sigarette, canoniche per i suoi ordinari quarti d'ora, e non intendeva accenderne una terza, e non perché avesse particolari remore nel farlo, almeno per la sua salute, cosa di cui non gli era mai importato granchè, e magari era proprio per questo, tante volte si era cullato in questa auto convinzione, che pareva godere di ottima salute; ma, se aveva una remora, era solo per il disagio che provava nel sentirsi osservato, da quei piccoli gruppi di persone, che, come lui, stazionavano davanti alla biblioteca, ma loro invece tranquilli e intenti in dialoghi scherzosi; la sua prima causa di irrequietezza era in fondo questa, il forte senso di estraneità che provava rispetto alla socialità di quel luogo, si sentiva come se avesse dovuto dimostrare il perché della sua presenza in quel luogo e che il fumare una sigaretta dopo l'altra, non avrebbe potuto che essere inteso come un nervosismo sospetto, come se avesse avuto qualcosa da nascondere e certo pericoloso. In realtà se si trovava là era solo perché stava aspettando il suo amico Luigi, pratico di quegli edifici, dove anche lavorava, e che per questo, sapendo del grande interesse di Giuliano per i libri, lo aveva invitato a visitare insieme con lui quella biblioteca. E mentre impaziente continuava ad aspettare il suo arrivo, Giuliano non smetteva di dirsi "ma quanto cazzo sta ad arrivare?" In realtà avrebbe dovuto prendersela solo con se stesso, dato che, per il suo "eccesso di puntualità", come sempre gli succedeva, era arrivato molto in anticipo sull'ora convenuta. Succedeva sempre così, il timore di poter ritardare, lo portava quasi sempre ad arrivare molto prima, salvo poi innervosirsi per le inevitabili attese. Il suo sentimento di estraneità lo accompagnava ovunque, già lo provava nei luoghi noti, dove comunque era riconosciuto ed in qualche modo identificato ed accettato, era ovvio che perciò nei "luoghi ignoti" questo suo sentimento si moltiplicasse. Veniva da sé che questa estraneità che si portava dentro si trasferisse anche all'esterno; tutto di lui dava il senso di non c'entrare nulla con quanto lo circondava, e probabilmente dava adito a pensare perché si trovasse in quel luogo ed in quel tempo, come se in quel suo semplice esserci dovesse esistere qualche motivo oscuro e chissà mai anche pericoloso. Tutta l'atmosfera sociale, con le sue quotidiane campagna di "pericolo incombente", era in fondo completamente impregnata di una sorta di fobia per ogni movimento che sfuggisse ai soliti schemi riconoscibili ed ordinati. Obiettivamente Giuliano aveva molte buone ragioni per sentirsi così estraneo, il suo stesso aspetto, dimesso e che sfiorava la trasandatezza, per un occhio superficiale, come sono in fondo un po' tutti gli occhi che tendono a categorizzare il giudizio, poteva farlo sembrare un "poveraccio albanese" senza arte né parte, o addirittura, "non sia mai", uno zingaro che vagabondava pericolosamente fra la brava gente, niente di lui certo lo poteva far sembrare un "pura razza indigena". Per lo più era anche introverso e "non trovava mai le parole", e per questo incapace di creare ed immergersi in quello "humus di parole" che sono sempre alla base di una diluente comunicazione, cosa che lui sentiva come "un parlare a vanvera" e proprio di entrarvi non gli riusciva. E probabilmente era stato proprio per questa sua caratteristica di base, che facilmente i grandi sapientoni della psiche avrebbero definito come "personalità autistica", che Giuliano sempre di più aveva imparato a parlar da solo, e piano piano ci aveva preso sempre più gusto, da solo faceva discorsi così belli che, sempre piano piano, gli era venuto sempre più a noia lo sforzarsi di parlar con altri e sempre meno si rammaricava di non saperlo fare. Perché certo, almeno nel mondo presente, questo eccesso di introspezione non era giudicato molto bene, anzi, e sicuramente per gli stessi sapientoni, era considerato al pari di una "malattia". Lui, forse per contrastare la sensazione di biasimo sociale che provava per la sua tipologia caratteriale, si consolava con una opinione di Schopenauer che aveva letto una volta "non esiste nessuno con cui si possa parlar bene come con sé stessi"; e questa autorevole opinione, di un altro che per quel che si racconta doveva avere il suo stesso "vizio di parlar da solo", lo faceva sentire in pace e forse addirittura un privilegiato, perché non è una folgorazione il saper parlare con sé stessi, ma una lenta a e faticosa conquista, che passa attraverso molto dolore, prima di poter assomigliare a gioia. Ma torniamo al nostro eroe, che non voleva accendersi la terza sigaretta e sempre più nervoso dell'attesa e che si sentiva tutti gli occhi addosso ed anche se probabilmente, i vari occhi presenti, avevano ben altro da guardare. Nel centro della vasta piazza c'era un monumento, una sorta di obelisco, probabilmente un monumento a ricordo della guerra, vi intravvedeva, da lontano, la presenza di quelle che immaginava le solite retoriche frasi sull'eroismo dei soldati e sulle vite spezzate nel fiore degli anni e bla bla bla... e poi gli sembrava di leggervi la lunga lista di eroi caduti per la patria, eroi a forza che di certo avrebbero preferito una diversa sorte. Era sempre stato attratto da questo tipo di memorie storiche, anche se con un sentimento più derisorio che partecipe, leggendole soprattutto più come adattamento ad astratti e folli ideali patriottici, che non come autentica trasposizione di vera realtà storica; gli piaceva anche scorrere la lunga lista di nomi, quasi immedesimandosi in tutte quelle persone, che un giorno e per breve tempo erano vissute, ed immaginando con chissà che grandi sofferenze e rimpianti e sottomessi ad ogni sorta di prepotenza erano andati incontro al loro destino; e ancora gli piaceva cercare nel suono di quei nomi delle tracce di conoscenza, per trovare magari in quei suoni tanti appigli con persone del suo presente. Si sentì allora fortemente attratto da quel monumento alla memoria e, per ingannare la sua attesa e per sottrarsi al suo opprimente senso di estraneità, si diresse verso quel punto focale. Aveva percorso quasi tutto il tratto di strada che lo separava, quando girandosi richiamato da un rumore, vide sopraggiungere una bambina, che, esuberante e divertita, correva sulla sua piccola bicicletta, ma, arrivata al suo fianco, si fermò all'improvviso, quasi come se qualcosa di lui l'avesse incuriosita, e se ne restò là ferma, guardandolo fissamente, con quello sguardo sfacciato e diretto che solo i bambini sanno usare. "Ecco la mia maledetta estraneità, che mi rende immediatamente strano" pensava Giuliano, e d'altronde non gli sfuggiva di quanto le due parole fossero in relazione. Giuliano odiava i bambini, proprio per il loro modo, privo di finzioni, con cui rendevano espressi i loro sentimenti; ma dire che li odiava non sono neppure le parole giuste, anzi di per sé stessi egli li amava, e non certo di quell'amore deviato, con cui spesso viene inteso questo tipo di sentimento, ma li amava semplicemente come simbolo di pura bellezza, come espressione incorrotta di puro sentimento, almeno fintanto che questa loro incorruzione rimaneva intatta; in realtà quello che odiava era il riflesso degli adulti sui bambini, che impediva con loro ogni rapporto, improntato all'identica genuina purezza. La bambina ferma, quasi al suo fianco, continuava a fissarlo, quando, con uno scatto, sterzò bruscamente la piccola bicicletta, ma in questa tensione una bella bambola che stava in precario equilibrio sul cestino cadde a terra e quasi sui piedi di Giuliano. Questo lo fece sentire subito dentro un dilemma, da un lato sentiva l'impulso naturale al più normale gesto di gentilezza, ma dall'altro quello contrapposto di difesa ad immischiarsi il meno possibile con gli umani, sapendo come ogni cosa, anche la più normale, potesse dar adito a fraintendimenti o pregiudizio. Ma, dopo un attimo di esitazione, prevalse il primo impulso, e allora si chinò e, dopo aver preso la bambola, mentre cercava di rimetterla solidamente dentro il cestino, si era avvicinato così tanto alla bambina che certo, da lontano, sarebbe sembrato la sfiorasse. Lui non si era neppure accorto che in cima alla strada se ne stava una donna immobile e intenta a guardare verso la bambina, "e per quale ragione avrebbe dovuto accorgersi delle persone intorno?"; era la madre della bambina, che da lontano non aveva mai smesso di seguire le sue azioni. Fu un attimo perché si accorgesse di lei, e nel momento stesso quando si era trovato più vicino, quasi a sfiorarla, alla piccola. Chissà cosa aveva visto, o immaginato di vedere, questa madre, ma certo, allo strillo acuto e lacerante che lanciò nell'aria, pareva proprio che avesse visto qualcosa di orribile; il suo grido quasi disumano si diffuse per tutta la piazza e di certo nessun orecchio ne era rimasto ignaro. "Cosa fai?...Schifoso... non toccare la mia bambina! Aiuto!...Aiuto!...Aiuto!...c'è un maniaco che sta toccando la mia bambina....". Giuliano, che si era allontanato per sfuggire al disagio degli sguardi, si ritrovò di colpo al centro di tutti gli sguardi, e sguardi non certo benevoli, ma sprezzanti ed aggressivi. Tutta la gente sparpagliata nel vasto spazio corse frenetica verso di lui, i più veloci e volonterosi nel farlo erano stati alcuni robusti giovani, che probabilmente sentivano con un certo piacere questo "fuori programma", che li faceva sentire importanti e necessari e che dava loro legittima occasione per "menar le mani" e li riempiva di quel senso di eroismo nella difesa di "donne e bambini". Gli arrivarono addosso con impeto, rapidamente si era formato un aggrovigliamento di corpi che faceva pensare ad una ressa da rugby, lo buttarono a terra, lo riempirono di calci e pugni, mentre insieme lo investivano con le peggiori insolenze "bastardo, schifoso, bisognerebbe castrarti..." Era stato condannato senza appello, nessuno si era preoccupato di chiedere le sue ragioni, di lasciarlo parlare, era bastato quello strillo per sancirne la colpevolezza. Mentre tutti i baldi giovani erano occupati nel dare a quel "bastardo" la lezione che si meritava, le donnine si erano fatte intorno alla bambina e alla madre afflitta, per consolarle e soccorrerle. Giuliano invece, mentre tutto questo gli si rovesciava addosso, era rimasto quasi impassibile, incredulo, non riusciva a capacitarsi di quello che gli stava succedendo e non sentiva neppure nessuna forza per reagire, spiegarsi, giustificarsi, tanto questo, per la situazione che gli sembrava assurda, gli pareva del tutto inutile. Si sentiva come un marziano, capitato per caso in una terra straniera, aggressiva e ostile, di cui non conosceva lingua, usi e costumi, e che in nessun modo gli sarebbe riuscito di farsi comprendere. L'unica cosa che gli era venuto spontaneo fare era stato il raggomitolarsi come un riccio, ad occhi chiusi, cercando di assorbire al meglio i colpi che continuavano a martellarlo da ogni parte; era pieno di lividi, gli colava sangue dal naso, dalla bocca, gli occhi pesti. I baldi giovani sembravano prenderci sempre più gusto in questa loro operazione di giustizia e che niente gli avrebbe fermati, fino alla distruzione totale del malcapitato. Non ci sarebbe stato da stupirsi se, come nel vecchio West, avessero improvvisato una forca dove, per concludere in bellezza, appenderlo per il collo; e di certo questa "soluzione finale" avrebbe trovato il consenso generale e ci sarebbe stata la più calda opposizione a chi per questo avesse voluto criminalizzarli; è anche probabile che qualche inventivo e astuto fabbricante avrebbe fatto ottimi guadagni mettendo subito in produzione e commerciando delle belle magliette con stampate le parole "io sto con i baldi giovani!" La grande piazza, fino a pochi minuti prima tranquilla nel suo ordinario via vai di gente, si era adesso trasformata in una babele, una ressa sempre più fitta di gente che arrivava da tutte le parti, e tutta unita nel messaggio comune "dagli al bastardo!". Quasi subito arrivarono le forze dell'ordine, precedute dal chiasso delle sirene spiegate, anche in cielo si vedeva volteggiare, mentre cercava uno spiazzo per atterrare, un elicottero della polizia di stato. Difficile dire come sarebbe andata a finire per il povero Giuliano se nel frattempo non fosse arrivato Luigi. A dire il vero era arrivato con parecchi minuti di ritardo sull'appuntamento, e c'è da pensare che forse il suo ritardo sarebbe stato anche maggiore se non fosse stato anche lui, come tutti, richiamato dal grande clamore che inondava la piazza. Forse nei primi attimi neppure si ricordava del suo appuntamento e guardava, come tutti, nel centro del fuoco, cercando di capire quello che stava succedendo e intanto chiedeva a destra e a manca informazioni sui fatti. Solo quando, annaspando fra la folla, si trovò a pochi passi da Giuliano, che l'arrivo delle forze dell'ordine aveva nel frattempo un po' liberato dal groviglio di corpi in cui era stato avvolto, solo allora, e certo con un po' di perplessa difficoltà, tanto era malconcio, riuscì a riconoscerlo. Lui era di casa in quell'ambiente e conosceva un po' tutti, ma solo perché era energico e non si lasciava facilmente intimidire, gli riuscì di prendere in mano la situazione e di spiegare le cose. "Ma cosa state facendo? Guardate che qui dev'esserci un grosso equivoco, io lo conosco molto bene e so che non farebbe male a una mosca, ma cosa vi è saltato in mente di ridurlo così?...." Bisogna dire che non fu facile neppure per lui convincere tutta quella gente infuriata, e che d'altronde, accettando le sue spiegazioni, si sarebbe trovata nella difficile situazione, di dover ammettere di essere stati dei perfetti idioti. Non fu facile, ma, un po' alla volta, con la sua disinvolta oratoria, riuscì a placare gli animi ed a convincere tutti che si era trattato di una cattiva interpretazione delle cose; stimolò anche Giuliano a dire la sua, anche se gli riuscì con fatica, sia per la sua indole, ma anche per l'essere tutto pesto e sanguinante e con qualche dente in meno. Certo resta l'interrogativo che, se invece di chiamarsi Giuliano e amico di Luigi, si fosse chiamato Mustafà e amico di Abdullah, se tutte quelle spiegazioni sarebbero servite a qualcosa. Intanto, mentre tutto si andava chiarendo, tutta la gente arrivata gridando "al lupo, al lupo!", e soprattutto quella più solerte ed attiva, quatta quatta si defilava, e come rapidamente la piazza si era riempita, adesso si stava spopolando. Tutti cercavano di evitare dal sentirsi colpevoli e dal dover scusarsi di qualcosa, come spesso succede quando "le colpe sono di tutti", "non sono poi di nessuno"; anche i "baldi giovani", che con quell'intermezzo erano riusciti un po' a scaricare il loro eccesso di energia, pensarono bene di sgattaiolare di qua e di là, onde evitare identificazioni ed imbarazzanti domande e così in poco tempo la piazza restò quasi vuota. Solo Giuliano e Luigi rimasero ancora per poco tempo immobili in quello stesso luogo. Luigi un po' insisteva per accompagnarlo in ospedale, ma, per quanto malridotto, Giuliano non ne voleva sapere e alle sue insistenze si limitò a rispondere "no... grazie... non voglio correre il rischio che qualcuno completi l'opera... (detto in confidenza non riponeva grande fiducia nella sanità pubblica). Tornato a casa Giuliano restò a letto giorni e giorni a leccarsi le ferite e comunque, dopo quel giorno, si guardò bene dall'avvicinarsi ancora a una biblioteca.
Michele Serri 24/03/2015 11:51 1074

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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