Nonostante fosse primavera inoltrata, per qualche strano motivo il sole tardava la sua ascesa verso il cielo. Faceva freddo. Da nord folate di vento facevano tintinnare le campanelle sotto il portico e penetrando nelle assi della vecchia avvolgibile cadeva polvere di legno. La stanza da letto in penombra, poche le cose ben visibili, nell'aria l'odore di caffè. L'ora di alzarsi era prossima, Elisa mostrava i primi segni di vita. Ci volevano in media dieci minuti di parolacce e diversi sbadigli prima che proferisse parola. Ci volevano anche diverse ore, prima che si ricordasse chi fosse.
Non era poi cosi anziana, trentasette primavere nell'arco di una vita non sono tante, è un traguardo normale, anche se alcuni sfortunati non vivono il tempo di un ave maria. I pensieri ancora ovattati ed assopiti cominciavano a prendere forme e colori diversi. L'ansia stava dormendo beata, insieme a quel dolore al fianco che quotidianamente le faceva compagnia. Exginnasta olimpica, un'alteta doc.
Durante la sua carriera vinse molte medaglie sulla parte del podio più alta. Le piaceva coniugare corpo e spirito, trattare il suo fisico come un tempio. Dieta regolare, pochi vizi, vita sana.
Allenamenti quasi tutti i giorni, controlli medici, incontri psicologici. La sua vita era costantemente programmata. Trofei, targhe, riconoscimenti, interviste, gossip.
Andava tutto per il meglio.
I risvolti negativi? Ovviamente. Invidie, attriti, tendiniti e qualche strappo. Era contenta, intendiamoci, però alle volte si sentiva sotto un grande microscopio.
Erano mesi che non prendeva una vacanza, anche di pochi giorni.
Voleva staccare la spina e riprendere energia. Durante l'ultimo allenamento provando un volteggio, per poca concentrazione o per caso, nel ritornare in posizione base, la caviglia cedette.
Si trascinò a bordo tappeto e dopo aver chiamato il medico della palestra, venne portata in ospedale per la solita routine.
Una bella lastra, fasciatura, un bel paio di stampelle e ghiaccio a profusione. Nulla di rotto, ma allenamenti finiti. Era arrabbiata, ma non più di tanto.
La stanchezza era considerevole e questa pausa forzata sembrava manna dal cielo.
Mentre Dado, un suo amico, la stava riportando a casa, c'era un qualcosa che le turbava l'umore, uno strano tarlo le scombinava i pensieri. Non tanto per il dolore o per quella sensazione di fastidio, quanto il viso dubbioso del tecnico di laboratorio.
"Non era un dottore" però quell'espressione non le dava tranquillità.
Arrivata a casa, sudata e stanca, si tolse la tuta, con una certa difficoltà. Si mise una bella busta di plastica alla caviglia e via, sotto la doccia.
Il respiro stava tornando regolare, il dolore si era attenuato grazie al toradol.
Zompettando come un grillo, semi nuda con i seni al vento, appoggiandosi ai mobili arrivò in sala e si accomodò sul divano. Stordita e non del tutto lucida dopo l'ennesimo sospiro profondo, chiuse gli occhi e lasciò che Morfeo facesse il resto.
Si svegliò grazie all'odore di pizza che aveva saturato l'aria.
Girò la testa a destra poi a sinistra nella speranza che non si staccasse e rotolasse per terra.
Sul tavolo da caffè, un mazzo di tulipani.
Il suo cervello cominciò a fare due conti.
Pizza più tulipani solo una persona: Bio.
Amico di vecchia data. Un solitario.
Un bel pezzo di cristone, più lungo che largo. Secco come un chiodo.
Mangiava praticamente sempre, ma per uno strano caso non riusciva a prendere peso, beato lui.
Tranquillo, simpatico, carino a modo suo.
Un ragazzo per certi versi anonimo, ma completamente fuori di melone.
Andavano in palestra insieme, ogni tanto pure a correre, ma dopo un'operazione all'ernia e una lesione al menisco si dedicò a cose più statiche.
Bio stava apparecchiando la tavola, quando tipo periscopio di sottomarino alzai il collò al di la del divano esortando:" Oh Bio, va bene la pizza, ma i tulipani, perchè? "
Il gigante in mimetica (capirete due metri sono tanti, visti poi dal basso sembrano ancora di più) non si voltò nemmeno e rispose: " Mi ha detto Elisa che ti eri fatta male e sapendo che ti piace fare la lagnosa ti do due motivi per alzare il sedere. Pizza e tulipani, tanto, sghignazzando come un demonio, le pere le abbiamo di già".
Diventai di quattro colori, tutte sfumature di rosso. Ero rimasta con le grazie al vento.
Volevo strozzarlo, ma visto lo stato in cui ero, meglio se glissavo.
Usai il telo copri divano come toga cercando di arrancare verso il tavolo. Mi intravide e mi lanciò la sua felpa, che viste le misure mi avrebbe fatto pure da vestaglia. Tolsi la toga e misi la felpa che buon odore, una fragranza speziata.
Che tipo buffo, si era messo in testa un berretto che nemmeno mia nonna.
Mi porse il braccio e mi aiutò ad alzarmi.
La pizza fumante, coca e chinò, focaccia al rosmarino.
Mentre mangiavamo, fra una risata ed una presa di giro, pensavo " sarebbe bene che mi facessi male più spesso, almeno la sera avrei compagnia".
Che strana giornata, da come era partita mi sarei aspettata di passarla sola, dolorante e tesa, invece tu guarda che razza di piega ha preso.
Il dolore era quasi scomparso, ma ogni tanto qualche fitta faceva capolino, per evitare che aumentasse presi il toradol.
Il "mimetico pazzoide " stava sparecchiando, io cominciavo a sentire gli effetti dell'analgesico.
Prima che tornassi nel mondo dei sogni, lo ringraziai per tutto quanto, ma sapevo che non era necessario. Era buono e disponibile. Molto stravagante e fuori da ogni schema.
Un grande difetto che troneggiava sugli altri.
Era spigoloso.
Se lo trovavi in serata buona ci avresti fatto le cinque di mattina a forza di ridere e saresti finita con il mal di pancia, ma se era in fase "buia" ci voleva l'elmetto da guerra.
Era come mordere la stagnola, mentre ti stai gustando della buona cioccolata.
Ci scambiammo un bacio a fil di labbra, rimasi inebetita.
" Ci sentiamo domani, se hai bisogno chiama. Miao Ely".
Mi lasciò la felpa.
Mi fece una smorfia e chiuse la porta.