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Stavo li, accucciato tra due cassoni puzzolenti della spazzatura, tentando di rimanere il più fermo possibile e senza riuscirci. Per quanto m’ imponessi di congelarmi e per quanto la neve facesse di tutto per coprire quello schifo di vicolo e le sue lordure, rimaneva tutto troppo nitido. Le mie gambe accucciate continuavano a sbattere con le pareti scivolose di rigurgiti di società con un ticchettio rasposo come quello dei ratti che graffiavano l’ asfalto alla ricerca di cibo. Allora mi stringevo di più con quelle dita anestetizzate che si sfilacciavano e cedevano alle ginocchia. Non ce la facevo più. Singhiozzavo in silenzio, con forza, al buio, la cassa toracica che si stringeva dolorosamente attorno a quel battito talmente tanto da premere contro le costole come se volesse uscire da quella trappola da cui io invece non avevo il coraggio di uscire. Non riuscivo a fare niente, ma stavo male, male come mai in vita mia. Costretto nella mia stessa pelle che mi si rivoltava contro, aspettavo. Mi odiai, fino ad allora non avevo ben capito questa parola ma in quel momento mi rimbombava addosso: non sono riuscito mai più a odiare qualcuno con altrettanta forza. Non era così che volevo essere. Questo non ero l’ io giusto. Consumato dalla mia stessa debolezza, sentivo quel rigurgito acido che mi ostruiva l’ esofago e mi pizzicava i polmoni: stavo soffocando nel vomito della vergogna e mi rifugiavo nel solo posto che mi meritava, la spazzatura. Perché quello ero, niente di più niente di meno. Dovevo tornare, dovevo farlo, io ero di più avrei fatto di più, io valevo anche solo lo sforzo con cui mia madre mi aveva partorito, anche solo per quello ero in debito con lei. Non potevo farle questo, nonononnononononono NO! In quel momento, mentre mi stringevo abbastanza da non riuscire neppure a respirare decisi che qualunque modo di crepare sarebbe stato comunque meglio di quello, almeno sarei servito a qualcosa. Poggiando i gomiti sul muro sudicio tentai di rimettermi in piedi e ricaddi, i gomiti graffiati che iniziavano a bruciare, li poggiai sulla neve nerastra fino a non sentirli e poi mi arrampicai di nuovo e un’ altra volta finchè fui in piedi, con riccioli di pelle rosa e appiccicosa che iniziava a mostrare punteggiature di sangue lungo le braccia. Ecco, non era tanto tragico, no? In fondo non faceva poi tanto male, era solo dolore. Nient’ altro. Solo una sensazione. Continuavo a sudare e sentire i polmoni che si espandevano mentre la gola bruciava e pizzicava, i respiri pesanti raschiavano freddi dentro di me e sudavo e avevo un freddo. Le gambe non mi reggevano e le mani insensibili tremavano dalle spalle e la testa rigida era attraversata dai quei brividi e singhiozzi che mi stavano tagliando e tritolando. L’ avrei fatto, fosse stata l’ ultima cosa che facevo, sarei tornato e sarei rimasto finchè tutto non fosse finito. In un modo o nell’ altro. Tenendomi dal bidone mi trascinai fino all’ angolo che guardava verso la strada e poi in quel silenzio pesante interrotto solo da qualche sirena lontana e macchina veloce mi trascinai verso quello che volevo essere. Non respiravo neppure più e le mie mani erano nerastre, i jeans sudici e gelati mi cadevano pesanti addosso mentre guardavo la porta. Sentivo solo il martellare del muscolo che mi odiava e cercava di sfondare lo sterno e quel respiro affannoso che mi rimbombava nelle orecchie. Non potevo stare lì, non potevo andare via anche se tremavo e non servivo e il mio stomaco bruciava e bruciava fino ai polmoni, dovevo avere almeno il coraggio di entrare. Mi lanciai sulle scale ghiacciate fino alla porta fino a sbatterci contro una, due, tre, quattro – la spalla non la sentivo più- cinque – stavo gridando-, sei – stava finalmente muovendosi un po’ ma non cambiava e sette – con la pala per la neve sul chiavistello-, otto -la pala che inizia a spaccare quella porta di merda-, nove- sta cedendo del tutto-, dieci- con la pala e tutto me stesso come un unico bozzolo di odio-, undici – ero dentro. Scappai nel soggiorno scuro e nella cucina sporca e nel bagno bianco e continuai su per le scale fino quasi alla fine mentre il mostro, mio padre, mi veniva incontro. Era ubriaco lercio, la sua puzza, peggiore di quella di qualsiasi cassone d’ immondizia, oleosa e penetrante mi arrivava addosso assieme a lui e al suo sguardo brillante d’ alcol. Mi arrivò addosso giù per le scale e mi scaraventò fino al salotto. Era finalmente iniziata. Non sentivo quasi niente oltre il mio respiro e il dolore al ginocchio, tossii fino a quasi sentire i polmoni che si spaccavano e lui mi prese sulla schiena con la cinghia mentre gridavo e gridavo e gridavo, su un fianco su quelle piastrelle scure, con la faccia attaccata al pavimento e la schiena inarcata e contratto fino a non sentire di nuovo. Arrivò la seconda e la terza mi prese sul collo e mi strozzai col mio stesso grido, mi contorsi con quelle mani ghiacciate sul collo che bruciò ancora di più mentre il muscolo si contraeva in uno spasmo e la mia testa si accartocciava di lato per non sentire. Visto, c’ ero ancora, non ero scomparso, ero sempre io, sempre io. Io c’ ero. Io ero. Non sparivo, nonostante il dolore e fino a quando sarei riuscito, non sarei svenuto. Gridava anche lui e mi diceva ch’ ero un uno scarto, una merda, un animale, che non meritavo d’ esistere, che facevo schifo e picchiava la cinghia e continuava a picchiare e gridavo anch’ io. Forse, anche mia madre da qualche parte, non lo sapevo. Ma stava picchiando me, finalmente facevo qualcosa, finalmente non potevo avere più paura del dolore. Gridai fino a non farcela più, fino a non sentirmi neanche, alla fine lasciai andare le gambe rigide e non mi importava di proteggere il ginocchio col sangue che colava o i gomiti o il collo che bruciava non mi importava neppure di stringere quegli occhi talmente chiusi che quasi le lacrime non potevano uscire e non sentivo quasi più niente e non vedevo più e non mi interessava quasi, se sarei rimasto li. Per terra col la tempia premuta all’ angolo della mattonella, in quella casa con le scale di legno e cattiva per chi ci viveva.
L’ osso del polpaccio che si frattura sotto il suo piede mentre calcia la mia stupida vita fuori dai coglioni e io vomito su me stesso e sulle piastrelle nere mentre stringo quella maglia vecchia fino a strappare e arriva mamma e grida anche lei e piange e pensa che forse questa volta non sarà lei ma sarò io finalmente a morire. Ma va bene in fondo, va bene perché io ci sono e mi odio un po’ meno e forse almeno sono meno spazzatura, forse in quel momento ho un po’ di pace e posso di nuovo sentire, libero dalle paure. Forse sangue e vomito e neve annerita mi hanno solo fatto bene e comunque vada posso ricominciare.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.
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