O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne’ ritrosi passi,
non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola a la giustizia senza schermi?
(Purg. X)
Era stata una vera e propria illuminazione, una di quelle famose illuminazioni poetiche evocate dai poeti simbolisti di fine ottocento, ma anche da Ungaretti, in trincea, tra i morti con la bocca digrignata, che gli fanno amare la vita come non l’aveva mai amata.
Quei versi del decimo canto del Purgatorio, letti e spiegati tante volte nel corso degli anni ai suoi alunni di quarto liceo e condivisi più per dovere deontologico che per una personale convinzione, le si aprirono d’un tratto agli occhi dell’anima, chiari, profondamente veri, assiomi indiscutibili di una filosofia antica quanto il mondo.
Sua madre si alzò a fatica dalla sedia accanto a lei, con estrema cautela prese il bastone, suo inseparabile compagno, e si avviò, muovendo con circospezione un passo dietro l’altro: - Non ti preoccupare – la rassicurò – faccio piano piano. Devo pur muovermi ogni tanto, per sgranchirmi le gambe, altrimenti un giorno o l’altro non mi risponderanno più. Stai tranquilla, faccio piano piano.-
La seguì con gli occhi, mentre si allontanava con l’andatura di una piccola tartarughina impacciata, trascinandosi dietro quel corpo leggero come un guscio d’uovo, trentadue chili sorretti da un’impalcatura scheletrica fragile e ricurva, resa quasi trasparente ai raggi x dall’osteoporosi.
Andava a trovarla quando poteva, tra gli impegni dell’insegnamento, della famiglia, dei figli sempre bisognosi di appoggio e di guida, e cominciava a sentirsi in colpa ogni volta che, avendo un po’ di tempo a disposizione, si lasciava scoraggiare dalle due ore di viaggio che la separavano da sua madre. Se ne sarebbe pentita, dopo, ne era certa, e avrebbe voluto poter rimediare, tornare indietro, esserle stata accanto più spesso, non essersi lasciata spaventare dal tragitto di notte su quelle strade di montagna, reso più difficile dal cattivo tempo, dalla pioggia, dalla neve.
Si avvicinava un altro Natale e sarebbe potuto essere l’ultimo che avrebbe trascorso con lei ancora viva. Ogni ricorrenza ormai poteva essere l’ultima e questo le rendeva tutte ugualmente importanti, speciali, irripetibili.
Sua madre tornò a sedersi accanto a lei, dopo aver poggiato sulla spalliera della sedia il fedele bastone.
- Prendi un goccino di caffè, dai, fumiamoci un’altra sigaretta.- Le sorrise con aria complice e si alzò per versare un po’ di caffè nelle tazzine già usate, poi le passò il pacchetto di Brera e si accesero una sigaretta, come due ragazzine indisciplinate, che stanno commettendo una marachella alle spalle di genitori severi e inconsapevoli. A ottantadue anni ancora quella sigaretta dopo un caffè le dava un piacere che non riusciva a negare a sé stessa, malgrado se ne vergognasse un po’.
- Vorrei smettere di fumare, sai? Ci penso ogni giorno, quando questa tossettina fastidiosa non mi dà tregua, ma poi penso: ”Ormai, alla mia età!”.
– Hai ragione – le rispose con dolcezza – Non è il caso di fare sacrifici, non li faccio neanch’io, vedi?- e risero entrambe della loro reciproca mancanza di volontà.
La guardò mentre fumava: teneva tra le dita la sigaretta, dita sottili, diafane, come la pelle delle mani, tratteggiata dalle lievi striature blu delle vene, e quei polsi così delicati, che si racchiudevano facilmente tra un indice e un pollice congiunti.
Quando la baciava sulle guance, prima di ripartire, sentiva sotto le labbra la durezza degli zigomi ossuti, le guance scarne e sperava con quei baci di ridarle un po’ di consistenza, di calore di vita, di farla tornare piena e bella come un tempo, disperando ogni volta di più su questo desiderio.
Eppure, tranne il corpo, tutto di sua madre era ancora perfettamente integro, pieno, vivo, potente: integra la sua facoltà intellettiva, mai nessun segno di cedimento nella sua capacità di ragionare, di costruire discorsi con coerenza e di comprendere i discorsi altrui; piena la sua capacità di decidere per sé e di consigliare la strada migliore ai suoi cari; vivo e straordinariamente profondo il suo amore, la sua disponibilità ad aiutare e sostenere moralmente gli altri, a condividerne le sventure così come le gioie, a sopportare i propri dolori e le proprie angosce in silenzio, con abnegazione; potente il suo attaccamento agli affetti, ai ricordi, alle speranze di un futuro felice per i figli e i nipoti.
Riflettendo su tutto questo aveva avuto quell’illuminazione e i versi del divino poeta le si erano squadrati dinanzi agli occhi della mente in tutta la loro straordinaria verità.
Non è possibile che tutto finisca miseramente con la morte. La carne che torna polvere in una bara scura, il silenzio, il buio nero dell'inesistenza. Che si tratti dell'oltremondo cristiano o del samsara buddista o di un'altra qualunque forma di reincarnazione è irrilevante: l'unica cosa che conta è la certezza di non precipitare nella voragine senza fondo del nulla eterno.
- Il corpo è davvero un involucro insignificante – pensò – un contenitore fatto di ossa e carne, di elementi biologici transeunti, destinati a consumarsi e a morire non appena concluso il loro ciclo vitale, il tempo necessario a far schiudere il bozzolo e a cadere come scoria ormai inutile perché l’angelica farfalla, finalmente libera, spieghi le sue ali e spicchi il volo verso “la giustizia senza schermi”-