"3 Nissan 5740, 20 marzo 1980.
Egregio Signor Terracciano, in risposta alla Sua gradita lettera inviata alla Rubrica 'Sorgente di vita', Le comunico che il cognome Terracciano non è di origine ebraica e nulla ha a che fare con il cognome Terracina, derivato da questa antica cittadina del Lazio, dove gli Ebrei hanno abitato - ininterrottamente - dal VI secolo d . E . V ., se non addirittura ai tempi dell'Impero romano, fino all'espulsione del 1569, come si rileva da un mio scritto sulle 'Comunità ebraiche del Lazio, prima del Bando di Pio V ', apparso nel ' Lunario romano 1980 ', edito dai fratelli Palombi. Mi è grata l'occasione per inviare distinti saluti, Nello Pavoncello. "
Prima di ricevere questa lettera mi ero ingenuamente illuso di potere avvicinare il mio cognome a Terracina, o Terracini (in fin dei conti la mia cittadina campana dista poco più di cento chilometri da quella laziale), e di poter vantare, quindi, una lontana ascendenza ebraica.
Quando ero ragazzino la guerra era finita da quindici, vent'anni e, anche se a scuola non se ne parlava mai e non c'era nessuna "Giornata della memoria", mi lasciavo attrarre dalle storie sfortunate degli Ebrei, che la televisione più volte proponeva, ero affascinato da quegli esseri che mi sembravano sempre più colti, più intelligenti e anche (quando tutto andava bene) più longevi di noi.
Mi innamorai della sfortunata Anna Frank leggendo il suo "Diario" e (avendo visto un film in cui i soldati tedeschi a Roma andavano alla caccia degli Ebrei da deportare nei campi di concentramento chiedendo ai locali se certi cognomi corrispondessero ai nomi di qualche città o cittadina italiana), se conoscevo un uomo o una donna con un cognome toponomastico, ne venivo immediatamente conquistato.
Quando mia nonna, pesarese, parlava in un modo piuttosto diffidente del vecchio ghetto della sua città, o quando, riferendosi agli abitanti di Senigallia, per un'antica rivalità tra cittadine vicine, soleva dire (con un certo disprezzo) "Snegà ja, metà ebrè, metà canà ja", avvertivo, per contrasto, il fascino della vita degli Ebrei dei secoli passati.
Le mie letture più appassionanti sono state molto spesso quelle di scrittori in qualche modo ebrei, partendo dal mitico Kafka, passando per l'ebreo a metà Proust e arrivando a Pessoa, le cui origini israelitiche sono molto più lontane, ma comunque accertate.
Sfiorai l'amicizia (e forse qualcosa di più) di una ragazza ebrea di Ferrara e col cognome uguale al nome di un profeta del 600 a . C ., quando mi recai nel 1972 a Lisbona. Ci eravamo conosciuti in treno e, appena arrivati nella capitale lusitana, con altre persone assistemmo a uno spettacolo di fado, facendo le tre di notte. Ci eravamo dati appuntamento per la mattina successiva, alle nove: io mi svegliai a mezzogiorno, e seppi che lei si era presentata puntuale, e che naturalmente, poco tempo dopo, se n'era andata; non mi degnò poi più di uno sguardo! Questa disavventura mi fece riflettere sulla grande resistenza, anche fisica, degli Ebrei.
Dalla prima volta che l'assaggiai, ho sempre amato il cuscus, che ho mangiato molto volentieri, soprattutto in Francia, in ristorantini arabi. Una volta, però, sbagliai. Vidi a Nizza un grande ristorante che prometteva un ottimo cuscus: entrai convinto che fosse un altro locale arabo, ma mi ci volle poco tempo per comprendere che invece era un ristorante ebraico. Nei locali arabi venivo servito con calore, anche se i camerieri capivano che non ero uno di loro; in quello ebraico avvertii una certa freddezza, ed ebbi subito l'impressione di essere un intruso. (Il cuscus, sia detto per inciso, non era un granché, ma il ricchissimo antipasto di olive di tante varietà era favoloso.)
Quando lo Stato di Israele (che, forse, sarebbe anche potuto non nascere; del resto, già nel Settecento, nel "Dizionario filosofico", alla voce "Giudea", Voltaire, col suo solito tono un po' canzonatorio, scriveva: "Federico II, vedendo quel detestabile paese, disse pubblicamente che Mosè era stato assai sconsiderato a condurvi la sua banda di lebbrosi. 'Perché non andò a Napoli? ' diceva Federico") cominciò a mostrarsi sempre più forte, e a conquistare territori limitrofi per esso non previsti, il mio atteggiamento verso gli Ebrei cambiò un poco: pensai che erano diventati un popolo come tutti gli altri, che le loro differenze in positivo e le loro particolarità erano dovute essenzialmente alla diaspora, alla possibilità di viaggiare molto e di far tesoro, col tempo, delle caratteristiche migliori dei popoli coi quali essi erano venuti a contatto. (Chissà se, ad esempio, gli Indiani d'America, invece di essere sterminati dagli yankee - e quei pochi sopravvissuti confinati in riserve -, avessero avuto la possibilità di scappare e di girovagare per il mondo, a quest'ora avrebbero magari potuto diffondere la loro saggezza e la loro cultura, che sono andate invece quasi completamente perdute?)
Cosa mi è rimasto di questa navigazione in alto mare, durante la quale ho intravisto solo da molto lontano le coste del mondo ebraico? Forse la concezione che c'è un Dio (diverso) per ognuno di noi. Se il mondo classico credeva nell'esistenza di tanti dei, ciascuno specializzato in qualcosa, ma uguali per tutto il popolo, e se il mondo cristiano (e musulmano) crede in un Dio unico per tutta l'umanità, il Dio ebraico è solo apparentemente uno. Già il fatto di attribuirgli tanti nomi differenti ci fa dubitare, e poi la continua ricerca, da parte degli Ebrei più intelligenti, di strade personali che possano condurre a scoperte nuove e rivoluzionarie nei più svariati campi dello scibile umano ci lascia supporre che il segreto dell'evoluzione individuale (che, di conseguenza, si trasferisce poi a tutto il gruppo sociale) sia l'accanito inseguimento di una voce apparentemente al di fuori di noi, ma forse in realtà al di dentro, di una voce che ci detta qualcosa di profondo e nello stesso tempo di adatto a noi, personalmente a ognuno di noi, che sia la corte a una voce che sembra parlarci da chissà quali lontananze, ma che in realtà è quella di noi stessi, del nostro carattere, delle nostre tendenze, della nostra natura, del nostro spirito o anima se si vuole.