Da piccolo ogni giorno andavo in un camposportivo a giocare a pallone, era allora per me quasi un istinto, partire da casa, con voglia, alla solita ora, per arrivare a questo appuntamento.
Era un camposportivo sgangherato dove solo qualche discontinuo e malconcio pezzo di rete ne delimitava il confine.
Nei suoi punti meno battuti dal gioco c'erano ampie macchie erbose, dove invece il gioco si concentrava di più il terreno era arido e spoglio, il suo piano era cosparso di buche o grumi erbosi e raramente la palla arrivava alla sua destinazione senza trovare imprevedibili inciampi o deviazioni.
Dei pali un po' sbilenchi e piantati alla meno peggio erano le porte, dove noi ci affannavamo per arrivare al deideratissimo goal.
Anche se mancava la rete delle porte nessuno di noi si preoccupava ed ogniqualvolta la palla finiva lontano era un affannoso corrersi dietro l'un l'altro per andare a riprenderla.
L'area di rigore e gli altri settori del campo si distinguevano a fatica, soltanto un'ombra quasi invisibile, tracciata da chissà quanto tempo, la faceva solo intuire.
Una morbida scarpata, per il lungo e continuato uso, si era trasformata in una sorta di naturale gradinata; qui si sedevano e ci guardavano giocare i radi spettatori e ridevano e ci applaudivano e solleticavano le nostre nascenti vanità.
Il camposportivo confinava ad ovest con un terreno coltivato, frequentemente la palla andava a finirvi dentro e noi eravamo impauriti dal suo padrone, che ci appariva come una sorta di orco cattivo e che gridando ci minacciava e, col forcone che aveva in mano, qualche volta e con nostro grande dolore, la infilzava, privandoci di punto in bianco dello strumento essenziale per il nostro gioco.
Arrivavo al mio quotidiano appuntamento percorrendo un sentiero molto stretto che costeggiava un torrente.
Le sue acque, quando non era periodo di magra, erano abbondanti e limpide, si vedeva nitidamente il fondo e camminavamo a piedi scalzi sui suoi sassi levigati senza timore di ferirci, spesso non resistevamo alla tentazione di dar la caccia ai gamberi che qui si trovavano numerosi.
C'era un punto del torrente in cui, sotto una piccolissima cascata, si formava una specie di piscina naturale e qui, nei giorni più caldi dell'estate, fra una partita e l'altra, trovavamo un fresco refrigerio.
Sguazzavamo in queste acque per ore ed ore e così, lieti e scherzosi, trascorrevamo intere giornate fra estenuanti partitelle e rilassanti nuotate.
Ci trovavamo per le nostre partite in folle di bambini, 20, 30, anche più, bambini allegri e vocianti; ci ritrovavamo come per un istinto naturale, entusiasti per il quotidiano cimento.
Anche se eravamo in sovrannumero non c'era problema, poco ci interessavano i regolamenti; così le squadre, a seconda del bisogno, potevano variare da 8, a 10, a 15 e più giocatori, finchè il campo ci poteva contenere c'era posto per tutti.
Anche se tacita, c'era una scala di valori, c'erano dei leaders e dei gregari e, con questa scala di valori, ogni giorno le squadre che si sarebbero affrontate venivano formate con equilibrio, perchè l'incontro dovesse essere avvincente e contrastato.
Ci raccoglievamo tutti nel centro del campo e due di noi, fra i più grandi e che sapevamo i più abili nel campo, procedevano alla formazione delle squadre.
Il classico “ pari e dispari” dava ad uno dei due la prima scelta.
Lentamente le due squadre prendevano corpo, uno dopo l'altro, in ordine di valore che corrispondeva il più delle volte con la prestanza fisica, si formavano due file contrapposte; quando, alla fine di questa conta, non restava che una zavorra di bambini più piccoli, l'ultima suddivisione veniva fatta a caso e in blocco, cinque per te e cinque per me e la partita poteva cominciare.
Qualche volta c'era un volonteroso che si offriva di arbitrare ma quasi sempre, nello spazio di qualche minuto, si ritirava rassegnato ai bordi del campo, la partita gli sfuggiva di mano e per quanto fischiasse, urlasse, agitasse le mani, più nessuno gli dava retta.
A dominare la partita erano quasi sempre i soliti caporioni, i cinque o sei più grandi che, un po' in virtù di una tecnica migliore e un po' perchè fisicamente più prestanti, giravano per il campo con scioltezza, si liberavano agevolmente delle torme di bambini che come un nugolo di mosche tentavano di contrastarli ed assomigliavano, in queste improponibili rivalità, a dei Pelè nostrani.
Noi guardavamo a questi grandi con un sentimento misto di ammirazione e di paura ed ogni loro rimprovero era per noi un'umiliazione ed ogni lode un piacere ed una speranza.
Per noi erano come degli dei ed il nostro grande desiderio era il poter arrivare un giorno ad essere abili nel gioco quanto loro.
Poi la partita cominciava, nel giro di pochi minuti tutti i ruoli fissati dai grandi capi saltavano ed i difensori finivano per trovarsi nella zona dell'attacco e gli attaccanti erano costretti a rientrare nella loro area per fare i difensori.
Il desiderio di ognuno di noi era il riuscire a dribblare con eleganza brasiliana una diecina di avversari e quindi, soli davanti al portiere, beffarlo con un calibrato pallonetto.
La parola più abusata che si sentiva gridare per il campo era “ passa!...passa!...”, ma pochi di noi si privavano di una chance per coronare il loro grande sogno e continuavano imperterriti a tener palla fino a quando, stremati, qualcuno non gliela rubava di sotto i piedi.
L'entusiasmo era alle stelle e non risparmiavamo nessuna energia pur di essere protagonisti del gioco.
Come un nugolo di mosche sui rifiuti ci buttavamo in massa alla caccia del pallone e, dopo una confusa serie di batti e ribatti, il più fortunato se ne usciva dalla mischia pronto per rilanciarsi in avanti.
Ma erano quasi sempre i grandi a tenere il gioco, ci passavano via, no dopo l'altro, come fossimo stati dei birilli, qualche volta, quando arrivavamo al contrasto, era come se fossimo andati a sbattere contro un palo di cemento, la loro gamba sembrava fatta di granito e, mentre noi rimanevamo a terra doloranti, questa rimaneva salda sul terreno.
Giravamo loro intorno, ognuno speranzoso di ricevere un passaggio, per poter così avere il suo breve attimo di gloria ed in tutta la partita questi momenti erano veramente rari.
Sempre l'incontro si risolveva in una goleada ed i punteggi a due cifre erano la norma, i bomber erano sempre i soliti noti, che collezionavano cinquine di reti a testa; per noi, invisibili comprimari, arrivare al goal significava tornare a casa colmi di incontebile gioia e quel così insignificante evento ci restava per molto tempo infisso nella mente, come un'incredibile emozione.
L'assenza o la vacuità arbitrale causava infinite contestazioni ed ogniqualvolta qualcuno gridava al fallo succedeva un parapiglia.
“Mano!...hai fatto fallo di mano!....”, “ no!...mi è passata vicino ma non l'ho toccata!...” e andava avanti così, con gli animi che si accendevano sempre più, fin quasi alla zuffa.
Era poi sempre un grande a risolvere la questione, con prepotente autorità sanciva l'innocenza o il fallo, a suo completo gradimento e spesso seguendo il filo delle sue simpatie e quindi il gioco proseguiva.
Erano partite avvincenti, pervase di un irriferibile agonismo, che le rendevano emozionantissime per tutti quanti ne erano protagonisti.
L'impegno e lo sforzo che qui venivano profusi sfioravano ogni limite e resistenza umani, il piacere di esserci e di dimostrare a sé stessi ed agli altri le proprie più o meno illusorie capacità di gioco rendevano la partecipazione e l'entusiasmo massimi ed esplosivi e tanto più piccoli erano gli eroi tanto maggiore era il loro trasporto.
Neppure il sole che spariva all'orizzonte bastava a fermarli, essi continuavano imperterriti nel loro cimento fin quando il buio avanzante non consentiva quasi più di distinguere la pallae c'era una sorta di rabbia verso il giorno che finiva, perchè, se così non fosse stato, si sarebbe andati avanti all'infinito.
Si protrasse per molti anni questo spontaneo e allegro quotidiano ritrovo di ragazzi e mentre molti che crescevano si allontanavano e, abbandonato il mondo dell'infanzia, venivano ingoiati da quello adulto, altri piccolissimi li sostituivano e, dopo i primi inesperti calci, rapidamente si animavano di passione per questo gioco.
Sembrava che questo disordinato assembramento di spontaneità e di gioia non avesse mai a finire e che l'avvicendarsi delle generazioni lo potesse riprodurre sempre uguale, ma non era così, dapprima sottilmente e quindi intensamente, intervennero dei grossi cambiamenti a sovvertire e tarpare questo mondo fatato.
Cominciarono alcuni adulti, vedendo questa sgangherata armata di gaudenti, a pensare che un po' d'ordine avrebbe potuto trarre da quel fermento migliori risultati.
Evidentemente per costoro la gioia dei bimbi non era un risultato, ma un qualcosa di negativo a cui era bene porre un freno.
Arrivò un giorno quando questi bimbi, sopraggiunti al solito appuntamento, trovarono il loro campo da gioco tutto sottosopra.
C'erano trattori, ruspe, camion, che scavavano, rivoltavano la terra, strappavano le malconce recinzioni.
Un uomo ben vestito e sicuro di sé, e che si capiva bene essere il direttore di tutto quel sconquasso, andò loro incontro e, riempendosi la bocca con un sorriso tranquillizzante, parlò loro con tono suadente.
Con un fiume di parole li frastornò per attenuare la loro palese delusione, disse loro che non dovevano preoccuparsi e che in capo a qualche tutto sarebbe stato sistemato e che avrebbero potuto riprendere a giocare in un campo mille volte più bello di quello che avevano lasciato; ma costui forse ignorava quanto per loro “ qualche mese” equivalesse quasi all'eternità.
Alcuni bambini obiettarono qualcosa, poi il coro dei lamenti si estese, ma non c'era senso di rivolta, ma quello spirito di sottomissione che sempre lega il piccolo all'adulto ed il distinto signore ebbe gioco facile nel placare i loro animi, li incantò con la sua parlantina, li inondò di impossibili promesse che dentro di sé sapeva bene quanto fossero impossibili.
Alla fine i bambini rassegnati, ma ottimisti per le rosee prospettive che erano state loro promesse uno dopo l'altro se ne andarono e si dispersero a piccoli gruppi per le strade, non rinunciando a dare qualche calcio al pallone mentre correvano lungo le vie.
Il tempo che dovettero aspettare non fu breve, ma molto lungo, tornavano spesso ad osservare il campo sperando di poter riprendere il loro gioco, giorno dopo giorno lo vedevano cambiare completamente d'aspetto; il terreno era stato meticolosamente livellato e sembrava il panno di un biliardo, due porte nuove, complete di rete, avevano sostituito i pali sbilenchi che c'erano prima, la gradinata naturale era stata cementata e transennata e solidamente si distingueva dal contesto ambientale circostante con cui prima era in piena armonia; nei pressi della gradinata era stato costruito un edificio rettangolare, adibito a docce e spogliatoio; la rete di recinzione malconcia che era stata divelta era stata sostituita con una alta e robusta ed alcuni solidi cancelli erano diventati ora gli unici passaggi per poter accedere al campo di gioco.
I bambini, privati di punto in bianco del loro giornaliero sfogo, non sapevano più come trascorrere il loro tempo e, come un popolo scacciato dal suo territorio da un esercito invasore, vagabondavano sbandati da un luogo all'altro, cercando di inventare qualche diversivo grazie al quale ricreare l'atmosfera perduta.
Era trascorso ormai più di un anno da quando tutto ciò era avvenuto ed il campo sportivo, come qualsiasi oggetto appena uscito dalla fabbrica, poteva dirsi un prodotto finito; tutto era nuovo e scintillante ed anche l'erbetta, che era vera erba come solo la natura sa creare, sembrava artificiale, tanto era regolare e perfetta.
I bimbi, anche eormai quasi dimentichi della loro passione, speravano che tutto potesse riprendere come era già stato e si accostarono più volte, timorosi, ai bordi del campo, ma i lucchetti erano ancor chiusi e vistosi cartelli avvertivano che l'accesso al campo era vietato, a meno che non fosse autorizzato dalla “ organizzazione”.
Cosa o chi fosse questa fantomatica organizzazione essi lo ignoravano completamente, ma non trascorsero che pochi giorni che questa si fece conoscere, attraverso un passaporala vennero tutti convocati al campo sportivo sul far della sera.
Si raccolsero in cerchio nel mezzo del campo, al centro del cerchio stava il signore distinto ed insieme a lui altri due uomini, uno era un giovanotto molto robusto e spiritoso, l'altro, abbastanza avanti con gli anni, era piccolino e corpulento e dall'aria molto severa.
Si presentarono, il signore distinto disse che era il presidente dell'organizzazione, cioè il capo supremo, quello che a suo piacimento poteva assumere o licenziare, decidere quando e dove giocare ed ogni altra cosa inerente la squadra che sarebbe dipesa in tutto e per tutto da tale organizzazione.
Il giovanotto robusto e spiritoso era invece il segretario, quello che tesserava e registrava i giocatori, che amministrava le entrate e le uscite, che teneva in ordine e controllava tutti i documenti riguardanti l'organizzazione.
Da ultimo, il signore piccolo e corpulento, si presentò come l'allenatore, colui cioè che, da quel momento, avrebbe diretto i giocatori, li avrebbe seguiti nei loro allenamenti, avrebbe, di volta in volta, deciso le formazioni da schierare in campo, sarebbe stato insomma il direttore di quello che a loro bambini stava veramente a cuore, il gioco nel campo sportivo.
Vennero spiegati gli scopi ed il funzionamento dell'organizzazione e tutte le nuove regole e prospettive a cui i bambini, se volevano continuare ad usufruire del campo sportivo, avrebbero dovuto adeguarsi.
Ciò fu esposto con tatto e buone maniere, cosicchè restarono tutti convinti che il loro divertimento sarebbe presto ricominciato, come e forse più di prima; alla fine, felici e soddisfatti, i bambini dettero la loro adesione e si impegnarono a rispettare le regole che quella partecipazione avrebbe comportato.
Bastò poco perchè i loro sogni di rivivere i divertimenti passati andassero disillusi.
Affidati alla severa direzione dell'allenatore furono subito sottoposti a duri esercizi, corse massacranti, flessioni e torsioni, ogni sorta di ginnastica, lezioni teoriche del gioco del calcio; passarono così molte settimane durante le quali non riuscirono, non solo a toccare, ma neppure a vedere un pallone.
Anche la speranza di poter fermarsi dopo gli allenamenti per fare qualche tiro o una partitella fu subito delusa, il campo doveva essere trattato con tutti i riguardi, per non compromettere la crescita e la conservazione del manto erboso e molti dei bamnini non poterono fare a meno di chiedersi “ a che cosa serve un bel campo sportivo se non lo possiamo usare?”.
Mesi di lavoro ed allenamenti plasmarono quei caratteri disordinati ed indisciplinati e, mentre quest'opera procedeva, venne avviata anche una prima selezione, l'allenatore allontanò quei quattro o cinque che sentiva più refrattari ad integrarsi in una squadra ed instillò negli altri l'ambizione personale, così da farli sentire importanti e destinati ad una folgorante carriera sportiva.
Quest'opera alienò da tutti quei cuori ogni senso giocoso dello sport e li convertì ad una sua visione utilitaristica e personalistica, cioè adulta.
La squadra che l'organizzazione aveva fondato si consolidò, i disordinati bambini si trasformarono in piccoli campioncini, inseriti in una disciplina di gruppo che rese il loro gioco più efficiente ed adatto alla competizione.
Questa venne iscritta e partecipò al campionato, dove, dopo qualche anno in sordina, riuscì anche ad eccellere ed emergere, fino a vincerlo, con grande soddisfazione di tutta la dirigenza e degli stessi campioncini.
Il campo sportivo era sempre là, al solito posto, sempre invalicabile e curatissimo, la maggior parte delle persone giudicava positivamente queste trasformazioni e vedeva di buon grado l'organizzazione che le aveva consentite.
C'erano però ancora dei piccoli bambini che continuavano a chiedersi a che cosa servisse mai un così bel campo, se essi non lo potevano usare, quando e come volevano, senza tante chiavi, permessi e problemi.
Ma non c'era da preoccuparsi, era solo questione di tempo, anche questi sarebbero presto stati adulterati e l'organizzazione era pronta ad accoglierli per mettere un po' d'ordine nelle loro dispersive menti.