Continuava a rigirarsi nel letto come se la notte mordesse. Si sentiva ululare dentro, e poi in quel sonno lieve, di tanto in tanto, tra il dormiveglia, sfiorava con le ciglia il suono dei caccia ancora nella sua testa.
Alberto non era mai tornato realmente da quella maledetta guerra in Afghanistan. La sua missione di pace era rimasta incollata alla sua pelle, negli angoli della bocca, in una smorfia continua. La parola ancora rimbombava sinistra nelle sue orecchie: pace. Missione di pace. Lui e i suoi compagni erano stati mandati lì, in quella terra riarsa dal sole e dal niente, a combattere una guerra sporca, travestita da pace. Aveva ucciso, anche lui. Perché qualcuno glielo aveva ordinato. E non si era tirato indietro. Perché quando sei lì, su un campo di battaglia, i morti non sono realmente morti, diventano bersagli da eliminare, come in un video game.
L’ arsura gli dava il tormento, come ogni notte. Era inverno, ma lui moriva di sete, una sete che sembrava non passare mai. Era la stessa che aveva sofferto in quelle lunghe trasferte nel deserto, le stesse che aveva visto nella bocca dei suoi compagni.
E ora non credeva più alla parola " pace". Lo avevano ingannato, la pace non esisteva e ora non si fidava più di nessuno. Era tornato al buio della sua casa, aveva fatto installare grate alle finestre e vetri antiproiettile. Teneva la luce bassa e le persiane abbassate. Ogni rumore esterno era uno sparo.
Le notti erano infinite. Si tirò su e si mise seduto sul letto con gli occhi chiusi e i piedi nudi sul pavimento di marmo. Si rinfrescò per un attimo i piedi. Poi si infilò il giubbetto antiproiettile sempre pronto lì, sulla sedia accanto al letto e scivolò in cucina, al buio, come un gatto, aprì il rubinetto e bevve con la bocca attaccata al tubo. Era madido di sudore. I vetri delle finestre completamente chiusi, anche ad agosto. Non poteva rischiare che una granata entrasse dalla finestra. Niente aria condizionata, qualcuno avrebbe potuto inserire un gas velenoso nel motorino all’esterno. Poi si lasciò cadere su una sedia in cucina, con la testa ciondolante in avanti. Sentì un botto proveniente dal piano di sopra che lo fece sobbalzare, il cuore in gola.
Si ritrovò così, su questa sedia di paglia, il pigiama appiccicato addosso per il sudore, i capelli bagnati e i piedi nudi su quel pavimento sporco, la mattina dopo. Si accorse che la notte era passata solo perché sua madre, come ogni giorno verso le sette, venne a bussare alla sua porta per portargli il latte e il cornetto caldo del forno sotto casa. Era uno dei pochi momenti in cui riusciva per un po’ a dimenticarsi di questa guerra. Era l’unica persona di cui si fidava, adesso.
Le aprì senza chiedere niente, togliendo tutti i catenacci che blindavano la sua porta, se ancora ce ne fosse stato bisogno, visto che era già super blindata.
Le sorrise, si scansò per farla entrare e le dette un bacio.
« Dovresti uscire qualche volta, Alberto mio. Non puoi continuare così..»
Lasciami stare mamma, lasciatemi stare tutti. Non senti gli aerei sopra la testa? Non vedi che stiamo morendo tutti? Scappa, vai via, corri al rifugio anche tu e porta anche papà. Non rischiate proprio adesso che la guerra sta finendo. Si, la guerra finirà presto, mamma, stai tranquilla. Non piangere, mamma, non piangere. Non avere paura, ci sono qua io. Voi non morirete, perché ci sono io qui a difendervi.
Poi, come ogni mattina, con gli occhi lucidi, si stringeva nelle sue spalle curve e, senza dire una parola, quella donna minuta e senza più neanche un guizzo di vita nello sguardo, se ne tornava a casa.
Alberto rimaneva per un po’ seduto lì, davanti a quella porta, dopo averla richiusa accuratamente, con gli occhi fissi davanti a sé, con lo stesso preciso pensiero di sempre in testa. Poi quel ronzio, quel ronzio nelle orecchie che non lo lasciava un attimo. Anche quello era un residuo bellico. Lo scoppio di una granata nella casa vicino alla sua caserma, lo aveva reso sordo da un orecchio per qualche tempo. Poi un po’ alla volta, aveva ricominciato a sentire, ma il ronzio era rimasto.
Le sue giornate trascorrevano così, una uguale all’altra, nella loro lentezza e inutilità, divorando il tempo e la giovinezza. Erano già passati due anni dal suo ritorno. Due anni vissuti all’ombra dei suoi incubi. Due anni in cui tutti i tentativi fatti dalla famiglia e dagli amici di tirarlo fuori da questo impasse psicologico, erano stati inutili. Lui non voleva sentire parlare di psicologi, aveva respinto qualsiasi aiuto. E dopo un po’ anche i suoi amici avevano rinunciato.
Neanche il padre andava più a trovarlo. Si era ammalato di cuore nel vedere suo figlio in quelle condizioni e neanche lui, da un po’ di tempo, usciva più di casa. La mamma era l’unica persona che vedeva ogni giorno.
Guardò l’orologio della cucina: le 8, 15. Avrebbe fatto un bagno, come ogni mattina, nella vasca, per togliersi di dosso quell’odore cattivo. Per scrollarsi quella puzza di marcio, quella puzza di guerra.
Ne aveva visti a palate di morti su quelle strade, per giorni interi li aveva visti marcire lì, senza che nessuno se ne occupasse. Tutti avevano paura di avvicinarsi, avevano paura dei cecchini che si divertivano a giocare al tiro al bersaglio.
Ma ora lui qui era al sicuro, finalmente. Le finestre sbarrate, le porte antincendio, i vetri antiproiettile. E quando sentiva rumori sospetti, c’ era sempre il suo giubbetto a proteggerlo. Il telefono serviva solo alla madre, lo chiamava tre, quattro volte al giorno per sapere come stava e di cosa avesse bisogno. Per il resto era muto. Come lui. Ormai quello di sua madre era un monologo. Lui lasciava che fossero i suoi pensieri a risponderle. E lei capiva, conosceva a memoria le sue risposte mute.
Era l’unica persona che lo capiva, l’unica per la quale ancora valesse la pena vivere. La ringraziava con gli occhi, le era grato per tutto quello che faceva per lui. Anche le loro conversazioni telefoniche erano un monologo. Lui si limitava a dei si e dei no.
Uscì dalla vasca e scivolò nel suo accappatoio caldo.
Andò in camera da letto e si infilò, come tutte le mattine, la sua tuta mimetica e le scarpe militari. Poi andò a sedersi sulla poltrona del soggiorno, la faccia di fronte alla porta d’ entrata, sempre in allerta, sempre a cercare di fiutare e prevenire il pericolo.