Era una brutta serata d’ inverno quando era arrivato in paese, col suo volto scavato su cui, come carboni accesi, brillavano due occhi grandi come uova di pollastra, ed un naso sottile e ben modellato. Aveva cercato alloggio alla vecchia locanda di donna Regina, la figlia del panettiere, che, a mezzogiorno, faceva anche da mangiare per i muratori di Santu Missina. “ Solo per qualche giorno” aveva detto “ il tempo di trovarsi un locale in affitto, dove dormire e lavorare”.
Aveva firmato sul vecchio registro unto della locanda con una scrittura incerta, quasi non avesse tanta confidenza con la penna che aveva bagnato nel calamaio posto vicino al vecchio campanello a batacchio che serviva a farsi annunciare.
Portava un paio di pantaloni ben stirati, anche se piuttosto vecchi ed un po’ stropicciati, che avevano i gambali tanto larghi che le sue gambe sembravano due stecche di legno dentro al tessuto.
Sotto la giacchetta un po’ striminzita si notava un vecchio gilè ed una camicia a righe di poco valore come quelle che indossavano i manovali della ferrovia o i massari (1) che scendevano in paese la domenica mattina.
Ai piedi aveva un paio di scarpe inzaccherate di fango e tutte bagnate che, prima, sicuramente erano state lustrate con molta cura. In testa non aveva né coppola né basco anche se si notava il segno sui capelli.
A tracolla, legato con un pezzo di spago grosso, quello per legare i pacchi, aveva un paracqua grande da carrettiere, tutto bagnato, ed una specie di sacco militare simile a quelli che portavano gli americani durante la guerra.
Appoggiata alla sua destra, a terra, una vecchia valigetta di cartone pressato, legata in croce con lo spago perché non s’ aprisse, a completare il suo bagaglio di viaggio.
Sbrigate quelle quattro formalità che bisognava, per via dei carabinieri che passavano ogni giorno a controllare chi era arrivato e che cosa era venuto a fare in paese, chiese a donna Regina dove poteva mangiare un boccone prima di andare a dormire ed, alla sua risposta che se voleva c’ era un piatto, ancora caldo, di “ sinapi fritti cull’ ova”(2) lui aveva chinato la testa per dire di si, e poi aveva chiesto dov’ era il cesso.
Quella sera, seduto ad un tavolino situato in un angolo a destra in fondo allo stanzone, aveva mangiato con avidità, come se durante la giornata non avesse toccato cibo, buttando l’ occhio, ogni tanto, verso il resto della stanza, separata da due “ canizze”(3), dove quattro abituali avventori stavano giocando a tressette a perdere e bevendo qualche bicchiere di vino che alla fine avrebbero pagato quelli che avevano perso la partita.
Alle pareti, nude ed un po’ annerite da qualche sfumazzata di fumo, proveniente dalla stanza accanto, dove c’ era il forno a legna, era appeso un unico quadro grande con la cornice di legno pur essa annerita non si sa bene se dagli anni o dalla sporcizia.
Un bancone di faesite situato sulla parete di sinistra, dietro al quale stava sempre donna Regina, completava l’ arredamento dello stanzone, ed a quello spesso buttava l’ occhio il nuovo arrivato mentre finiva di sistemarsi la giacchetta ed il gilè scuotendoli per togliere qualche mollica di pane.
La mattina dopo si era recato all’ osteria di “ Zu Bittu”(4) per chiedere se c’ era possibilità di trovare lavoro, ed alla sua domanda di cosa sapesse fare lui aveva risposto che s’ arrangiava a fare di tutto, visto che aveva bisogno di lavorare, ma che il suo mestiere era il sarto. L’ oste gli aveva indicato la casa in fondo alla discesa, vicino all’ ufficio delle poste, dove abitava Tubberio (5), l’ unico sarto del paese, che forse aveva del lavoro da fargli fare.
Aveva, così, trovato una sistemazione provvisoria da Tubberio che per poche lire, un letto nello scantinato ed un piatto di pasta a mezzogiorno gli aveva dato un lavoro come aiutante a patto che lavorasse sodo e non stesse a guardare le “ caruse”(6) che passavano per la strada. Tubberio, uomo di età indefinibile, forse sui 37- 38 anni, sempre serio ed intento alle cose sue, che guardava sempre dritto negli occhi tanto da sembrar volesse scavare fin dentro l’ anima, gli aveva chiesto come si chiamasse e lui con calma aveva risposto “ Don Sarinu, ma potete chiamarmi Sarinu, visto che lavoro per voi” e poi gli aveva chiesto da quando poteva cominciare a lavorare. In paese tutti si chiedevano da dove venisse ma non osavano chiederglielo, chi diceva da Messina, chi da Rometta, ma nessuno era in grado di definire la sua origine. Pian piano la gente s’ era abituata al nuovo venuto che era stato accettato da tutti e che aveva cominciato ad uscire la sera andando sempre all’ osteria di Zu Bittu o “ a chianca di Gugliemmu”(7) dove poteva consumare con quattro soldi un piatto e bere un bicchiere di vino.
Un giorno, dopo qualche mese dal suo arrivo, un forestiero aveva chiesto se avessero visto in paese, recentemente, un giovane con i baffetti ed una sacca militare come quella degli americani; nessuno aveva saputo o aveva voluto rispondergli, anche perché il fare di quell’ uomo li aveva insospettiti, ed ognuno si faceva i fatti suoi. Il forestiero aveva gironzolato per il paese tutta la mattinata ed alla fine aveva ripreso la corriera (8) che passava all’ una di pomeriggio perché probabilmente non era riuscito a sapere nulla e si riprometteva di fare ricerche al paese vicino. Da quel giorno Don Sarinu, che era venuto a sapere del forestiero, era diventato più guardingo, tanto da non uscire quasi più, arrivando perfino a cucinarsi, la sera, un piatto da sé nel “ fucaloru” (9) che si era attrezzato dietro la casa di Tubberio; la domenica mattina in Chiesa, alla Santa Messa, non si metteva più tra i primi banchi ma in fondo vicino la porta da dove poteva vedere tutti quelli che entravano; dopo un paio di settimane da questi fatti, una mattina dopo aver parlato con Tubberio ed ottenute quelle poche lire che gli doveva aveva ripreso la corriera che lo aveva portato là. Non un saluto né un rimpianto, era stata una figura come tante che erano passate prima di lui in quel paese dove ognuno si faceva i fatti suoi e la vita dei paesani aveva ripreso il suo corso senza che alcunché turbasse la tranquillità di quelle campagne che sembravano essersi vetrificate nel tempo. Chi fosse Don Sarinu è rimasto per sempre un mistero ed intorno alla sua figura, nel tempo, si erano costruiti castelli che non stavano né in cielo né in terra.
Note:
(1) Il massaro era un ricco contadino e fattore proprietario di bestie e di terreni coltivati e di pascoli per le mucche; (2) Verdura spontanea raccolta nei campi lessata e poi fritta con le uova; (3) la cannizza era un graticcio a maglie strette fatta di canne schiacciate ed intrecciate usata soprattutto per seccare, d’ estate quando il sole era forte, i fichi, i fagioli, i piselli, i ceci, le fave e far buttare la prima acqua ai pomodori maturi ed alle melanzane tagliate a fette da mettere sott’ olio ed aceto; ma veniva usata pure dai pescatori che l‘ ancoravano al fondo con delle cordicelle e delle grosse pietre per attirare sotto i scummi (sgombri) che poi avrebbero pescato; (4) Zio Benedetto, zio non perché fosse suo zio, ma da tutti veniva usata quella forma in segno di rispetto alla persona; (5) Tiberio; 6) Ragazze; (7) alla macelleria di Guglielmo, che aveva acclusi nella stanza accanto un paio di tavoli e quattro sedie per i forestieri di passaggio che volevano assaggiare qualche “ stigghiola” (stigliola, un involtino di interiora di agnello o di capretto) arrostita sulla brace; (8) Bus vecchio e sgangherato; (9) sorta di focolare costruito con tre pietre squadrate sistemate a ferro di cavallo, in mezzo alle quali si accendeva il fuoco, con sopra due staffe di ferro su cui si poggiava una pentola o una padella o una graticola;