Il caldo era una coperta che avvolgeva la sua pelle, senza lasciarla respirare. Un generale senso di malessere lo induceva ad accendersi una sigaretta dopo l’ altra, con il fumo che gli bruciava la lingua ed il palato, tanto nemmeno l’ acqua o una birra fresca gli avrebbero portato refrigerio. Guardava senza vedere gli avventori seduti ai tavolini, in attesa di ordinare, che quel pomeriggio di fine giugno era bollente da sciogliere in gocce di sudore anche il respiro. Il suo compagno era arrivato, presto sarebbero arrivati anche gli altri, i nuovi acquisti, per “ svecchiare” un po' il repertorio, ma tanto i turisti che erano là non avevano certo né l’ attenzione né la capacita di apprezzare la bellezza di certi passaggi. Un tempo non era così, quando era ragazzo e suonava con il padre accompagnandolo nei suoi piccoli tour spesso vedeva le persone che si abbandonavano alla musica seguendo la melodia ad occhi chiusi. Suo padre, lo vedeva ancora, attraverso il fumo della sua sigaretta, attraverso gli occhi irritati e lacrimosi, magro ed allampanato, il vestito grigio con la camicia bianca dai polsini lisi, il cappello ficcato sul cranio ossuto, i capelli ancora nerissimi, nonostante tutto quello che aveva visto, nonostante tutto quello che aveva vissuto. Ecco ancora una volta si stava facendo trasportare dai ricordi, si stava allontanando da quel luogo, dal caldo, dal vociare volgare dei turisti, da Slawomir che guardava nel vuoto facendo oscillare ossessivamente la gamba, con la chitarra imbracciata come un salvagente, come se stesse per annegare, come se qualcuno o qualcosa volesse portarlo via. Gli bruciava la gola, avrebbe dovuto prendersi una birra, avrebbe dovuto indossare una camicia più leggera, avrebbe dovuto smettere di fumare almeno cinque sigarette prima. Guardò il suo compagno con indifferenza, erano anni oramai che nelle pause non si rivolgevano nemmeno una parola, nemmeno uno sguardo. Si erano detti tutto, raccontandosi quella vita fatta di giorni sempre uguali fino a quando si erano esaurite tutte le parole, si salutavano muti, con un cenno della testa, si capivano al volo quando attaccava la musica, un violino ed una chitarra.
Arcadius, Slawovir, naturalmente non erano i loro veri nomi, cinquanta anni prima i loro genitori avevano pensato di preservarli dall’ orrore dando loro un nome polacco e non ebraico. E così con il nome avevano perso anche quella prerogativa di appartenenza ad un popolo, a delle radici ad una storia che per molti ebrei polacchi era una specie di marchio che li distingueva da ogni altro popolo. Che pensieri grevi in quel pomeriggio, era il caldo così innaturale per quel periodo, le troppe sigarette, quella strana sensazione che fossero tutti lì, intorno a lui a seguirne ogni mossa senza dire una parola, loro, suo padre, sua madre, quei fratelli che sua madre non era riuscita a fare che dicevano era già un miracolo che potesse avere avuto lui. Lui che era nato prematuro e con quell’ occhio fesso che guardava sempre in una direzione opposta rispetto a quello buono. Erano arrivati i ragazzi, cominciava lo spettacolo, imbracciò il suo violino, un cenno del capo a Slaw ed il caldo, le presenze, i pensieri sparirono nelle ore successive. Una musica dopo l’ altra, il ritmo che scendeva attraverso i rivoli del sudore che gli aveva macchiato la camicia rosa sotto le ascelle e sulla schiena. Ma non se ne avvedeva, la musica per lui aveva l’ effetto di allontanarlo da tutto quello che lo circondava, di portarlo in un’ altra dimensione dove non esisteva la paura o il dolore o la sofferenza. Lui che era nato ebreo, lui che aveva un padre con le cifre di un numero tatuate sul braccio, lui che da bambino aveva dovuto frenare ogni gioco o risata o scherzo, perché nella sua casa il riso, il gioco, la gioia erano spenti dalle immagini di volti dolenti appese ai muri. La nonna, con un fazzoletto in testa, vecchia già prima di invecchiare, il volto terreo dagli immensi occhi chiari, una piega della bocca come se già sapesse di lì a poco cosa le avrebbe serbato il destino. Lui sì, lo conosceva quel destino, raccontato dal nonno, nelle lunghe e buie sere d’ inverno, vissuto come un veleno in quella casa dove l’ orrore non dava tregua mai, nemmeno di fronte ad una nascita, ad una vittoria, ad una realizzazione. Solo una volta aveva visto sua madre ridere, in cucina, con una vicina di casa, una risata cristallina, anche di occhi, sfuggita improvvisamente da chissà quale parte del cuore. Si era inebriato di quel suono che non aveva mai sentito, gli scendeva in gola come acqua fresca, lo avvolgeva e lo cullava come mai gli era stato concesso. Chiuse gli occhi, per imprimerla fino in fondo, poi come era arrivata si era interrotta. Sua madre si ricompose e tornò quella che era sempre stata. Fu così repentino il cambiamento che dubitò di averla sentita veramente. Ancora ora, di notte, con gli occhi fissi al soffitto ad inseguire le luci della strada ed il sonno che si fermava con lui solo per brevi tratti, tornava a quel guizzo inaspettato ed unico. Sarah sì che sapeva ridere, lo faceva di ogni cosa, la sua risata contagiava l’ aria intorno rendendola frizzante e luminosa. Non era bella la sua Sarah ma quando rideva diventava una fata, e lui di quel riso si era perdutamente innamorato. Ricordava come se fosse ieri il giorno nel quale l’ aveva sentita per la prima volta, stava andando a lezione di violino, gli occhi bassi a seguire l’ acciottolato come se fosse uno spartito, quel giorno avrebbero sostenuto un piccolo esame, una prova per decidere chi sarebbe stato il primo violino del concerto di fine anno del conservatorio. Lui era bravo ed aveva ottime chanche di prendere quel posto. Non aveva mai mancato ad una lezione, si esercitava per lunghe ore nella stanzetta sul retro della casa, fino a quando le dita si bloccavano assalite dai crampi. L’ aveva sentita e la sua musica era sparita con il suono di quella risata. Non riusciva a capire da dove venisse, il vicolo era in salita ed un muro copriva la vista sulla piazzetta. Si fermò come folgorato, poi allungò il passo, lo stomaco in subbuglio ed il cuore che batteva all’ impazzata. Emerse nella piazza, un gruppo di persone erano sedute su una panchina e gli davano le spalle, c’ erano diverse giovani lì e non riuscì a capire chi fosse l’ autrice di quella melodia. Rallentò il passo, in attesa, e fu premiato, si alzò, ode al cielo, una risata talmente chiara, fragorosa, pura che gli vennero i brividi. Si fermò di colpo, fulminato, lei forse se ne accorse, perché si girò lentamente guardandolo, gli occhi luminosi, la bocca aperta, i capelli che le coprivano la fronte in una frangetta birichina. Fu un istante, vissuto scindendolo in ogni secondo, fu quello il momento nel quale si giurò che l’ avrebbe sposata quella fanciulla di cui non conosceva nemmeno il nome ma che gli aveva rivelato tutto di sé attraverso una risata. “ Pausa...” come risucchiato da un vortice tornò al presente, al caldo, al vociare dei turisti, a Slow che sembrava ancora più pallido, alla luce che gli faceva lacrimare gli occhi. Posò il violino e l’ archetto e si accese una sigaretta. Sempre una di troppo, in attesa che la cameriera carina che avevano assunto per quell’ estate, portasse loro una birra fredda, ora che la gola era riarsa ed il fumo caldo non portava giovamento! Bevve quasi d'un fiato una birra intera, poi si accese l'ennesima sigaretta, lanciò uno sguardo a Slaw, era pallido e continuava in quei suoi movimenti oscillatori, forse avrebbe dovuto alzarsi e muoversi un po', forse. Forse anche lui avrebbe dovuto spegnere quella sigaretta che gli stava quasi bruciando i polpastrelli ingialliti.
“Musica!” era ora di ricominciare, si mise in posizione e lasciò che le dita ripetessero gli accordi che conoscevano a memoria.
“Sarah, mi chiamo Sarah” ed aveva riso! L'esame lo aveva superato brillantemente, era lui il primo violino, era uscito di corsa ed era tornato alla piazza per rivederla, ma la piazza era vuota a quell'ora, tutti rinchiusi nelle proprie case a cenare e poi chissà a seguire qualche programma in televisione. Era tornato mestamente sui suoi passi, a casa aveva annunciato, no anzi aveva sussurrato l'esito del suo esame, poi in silenzio aveva cenato e si era rinchiuso in camera. Da lassù poteva vedere il cielo e forse un suo pensiero l'avrebbe raggiunta e lei avrebbe sorriso nel sonno. Era passato ogni giorno da quella piazza, l'aveva guardata senza osare chiederle niente, l'aveva sentita ridere ancora ed ancora e si era perdutamente innamorato, ma non le aveva mai rivolto la parola fino a quel giorno, fino al momento nel quale lei gli si era parata davanti e gli aveva rivelato il suo nome. Si erano sposati due anni dopo, lei lo aveva strappato dalla tristezza, aveva spezzato quel guscio di silenzio e di dolore che lo aveva avvolto senza quasi farlo crescere, piegandogli la schiena, rendendolo un uomo solitario. Lei lo aveva nutrito della sua risata, delle sue parole, della bellezza della vita raccontata dalle sue labbra, così per quasi quarant'anni, e anche se non avevano avuto il dono di un figlio, era stato profondamente felice, ogni giorno, fino all'anno prima quando lei si era spenta, dolcemente come era vissuta, sorridendo come aveva fatto sempre, come aveva fatto sempre a lui.
“ Giurami che onorerai la vita che ti resterà di vivere” glielo aveva giurato ma quel caldo, quella musica che gli si appiccicava alla pelle, quell'amaro in gola di birra e sigarette, lo stavano inducendo a spezzare il giuramento.
Era tornato alla solitudine della sua infanzia, al silenzio della casa dei suoi genitori che aveva ereditato, alle foto lugubri di un tempo senza luce e senza risa. All'inutilità di ogni suo gesto, dall'assoluta mancanza di piacere di imbracciare il suo violino, sì sempre quello da una vita che era diventato un tutt'uno con il suo collo ed il suo braccio. Si distrasse per un istante, la luce del tardo pomeriggio lo accecò, il brusio nonostante la musica, quel caldo assurdo di quella fine giugno e la certezza, liberatoria che l'indomani tutto questo non ci sarebbe stato. Sarebbe stato altrove lui e forse avrebbe rivisto la sua Sarah.
Al caldo torrido di quel giorno interminabile si era sostituito il caldo della sera, dai muri tutto intorno sembrava uscire il calore del sole accumulato per tutto il giorno, ma era una serata limpida, piena di stelle perché non c'era luna. Si erano avvicendati molti avventori durante tutto il pomeriggio, ora, seduti ai tavoli, solo pochi turisti, accaldati ed assonnati, rimasti lì più per la pigrizia di tornare alle proprie bollenti camere d'albergo che per il piacere della musica e di qualche bevanda.
Era finita anche per quella sera, in silenzio raccolsero i propri strumenti, con un cenno del capo si salutarono dopo essersi spartiti pochi euro a testa di mance. Era come in trance, ripose il suo violino, si accese l'ultima sigaretta, ne aspirò ferocemente il fumo, spense il mozzicone e si diresse verso casa. Cenò appena, pane e formaggio ed una birra fresca, ripiegò la tovaglietta a quadri verdi e sciacquò le stoviglie lasciandole capovolte sul lavandino, si rinfrescò il viso e le braccia, si lavò i denti e si mise a letto. Si addormentò subito e si risvegliò dopo poche ore, lo sguardo fisso sul soffitto, le luci della strada silenziosa che si riflettevano sulle pareti. Aveva tutto chiaro in mente cosa doveva fare. Si alzò e si rivestì con tutta cura, si infilò anche le scarpe e prese la scatola riposta in fondo all'armadio, era pervaso da una calma che assomigliava alla beatitudine, con gesti controllati e precisi tirò fuori dalla scatola una vecchia pistola che era di suo padre, era perfettamente a posto, oliata, funzionante. Inserì i colpi nel caricatore, tolse la sicura, si sedette al tavolo della cucina e si portò la canna alla bocca con gesti precisi. Ci aveva pensato per tanto tempo, quella sera aveva capito che era arrivato il momento giusto, intonò una breve preghiera e soprattutto mandò un pensiero di scuse alla sua Sarah, lo sapeva che non avrebbe approvato ma era anche certo che avrebbe saputo perdonarlo, era pronto.
“Miao miao miao...” un miagolio lo distrasse appena, scacciò il pensiero
“Miao miao miao...” “ Ma, cosa?” era incessante e disperato, veniva dalla finestra del suo abbaino, decise di ignorarlo ma le mani cominciarono a tremargli, fu come se avesse perso concentrazione, decisione, fermezza, come se nel vuoto della propria decisione di fosse insinuato un dubbio e quel vuoto si stesse riempiendo di voci, di ricordi, di speranze, di sensazioni tattili, di odori. La sua mano perse forza, la pistola diventò pesante, fu costretto ad appoggiarla sul tavolo.
“Miao...” il pianto diventava sempre più flebile e lui cominciò a tremare violentemente. Allungò la mano a cercare una sigaretta, se la portò alle labbra e l'accese, si alzò stancamente ed andò a cercare l'origine di quel suono: un gattino piccolo come la sua mano era in bilico su una sporgenza dell'abbaino della sua camera da letto, chissà come era arrivato fin lassù, parlandogli dolcemente riuscì ad afferrarlo e portarlo al sicuro dentro casa, lo strinse al petto e quel cuoricino palpitante gli infuse una scossa di calore, di vita.
“ Andiamo a vedere se c'è un po' di latte da scaldare” lo stava accarezzando ed il gattino che si era ormai rassicurato lo stava leccando con gratitudine. Tornò in cucina e mise a scaldare un po' di latte, guardò la pistola sul tavolo della cucina con un brivido, riempì una ciotolina e guardò il micetto bere avidamente.
A quel punto sentì squillare il telefono, guardò l'ora: le quattro e trenta, andò a rispondere pensando ad uno sbaglio:” Arrivo subito” l'avevano chiamato dall'ospedale, Slaw si era sentito male quella notte, forse il cuore, aveva chiesto di lui.
“ Devo andare micetto, hanno bisogno di me, tu puoi restare qui” aveva preparato un piccolo giaciglio con un asciugamano dove il gattino si era accoccolato.
Era completamente vestito, ripose la pistola, la nascose in fondo all'armadio e si diresse verso la porta. Fu solo un'impressione ma quando si richiuse la porta alle spalle sentì l'eco di una risata, era quella della sua Sarah.
L'avrebbe raggiunta prima o poi ma solo quando sarebbe stato il suo momento. Sorrise appena e cominciò a scendere.