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"Un'altra vita" cap. 1

Amore

1. SERGIO

Posteggiò l’ auto e si guardò un attimo intorno, prima di scendere. Ogni volta che passava dalla casa di suo padre, era tentato di non fermarsi se per caso trovava, ferma vicino al marciapiede, la macchina di sua sorella. Se questo capitava, in genere con una scrollata di spalle superava l’ esitazione e ugualmente entrava in casa; ma per fortuna oggi sua sorella non c’ era, non in quel momento. “ Ci sarà Elena” pensò Sergio mentre suonava il campanello del citofono. Infatti era la voce di Elena, l’ infermiera domiciliare che ogni giorno per circa due ore accudiva suo padre, quella che risuonò nel citofono. Elena gli aprì il cancello elettrico.

L’ ampio cortile era vuoto, spoglio. Era stato l’ aia della cascina dove Sergio era nato, e lui ricordava un arco di molti anni in cui quel cortile era pieno di movimento, gente, attrezzi per il lavoro. Anche in tempi più recenti, quando i suoi figli erano bambini e capitava che si trascorressero delle giornate intere a casa dei nonni, il cortile era vivo, giocattoli abbandonati, segni di partite di pallone… La vecchia cascina nei decenni era stata assorbita da quelli che erano diventati i sobborghi della cittadina; in realtà non era nemmeno più una cascina, ma era diventata, con le varie modifiche apportate da suo padre, una bassa palazzina d’ abitazione priva di qualsiasi stile di riferimento, in nome di una presunta “ comodità”. In più, ora era spenta e completamente priva di vita. C’ era solo più suo padre, Giovanni, lì dentro. Spinse il portoncino del piccolo atrio di accesso, e da qui la porta che immetteva direttamente nella cucina, e lì come immaginava trovò subito Elena e suo padre.

-Buongiorno Elena, ciao papà- disse posando la borsa dei libri che, senza nemmeno accorgersene, aveva portato dentro. Elena gli sorrise, stava sfaccendando vicino al lavello, ma Sergio notò subito la caffettiera sul fornello lì accanto; Elena aveva già acceso il fuoco per far salire il caffè, gli fece piacere questa piccola attenzione, l’ avrebbero preso insieme. Suo padre invece era accasciato sulla poltrona a rotelle, lo sguardo perso, non lo aveva nemmeno riconosciuto, o forse sì, chi poteva dirlo.

-Arriverà oggi la nuova badante? O forse è già arrivata?- chiese dubbioso. Sua sorella gli comunicava le novità sempre centellinando le informazioni, come se il totale senso di inaffidabilità che sempre la animava nei suoi confronti, le imponesse cautela perfino nell’ aggiornarlo. Certo immaginava che anche il solo essere messo a conoscenza delle cose, gli potesse permettere di comprometterle. Salvo poi al momento opportuno, rinfacciargli con prontezza il suo rimanere sempre ai margini delle cose da fare, delle decisioni da prendere.

-La signora Augusta è andata a prenderla alla stazione, dovrebbero arrivare insieme, credo tra un’ oretta. Io mi fermerò ancora fino a sera, per farle vedere bene cosa deve fare. Speriamo che vada tutto bene, che si fermi per un po’ di tempo, che sia brava.

Il caffè era salito, il profumo migliorò l’ umore di Sergio, gli era sempre piaciuto prendere il caffè in quella cucina, forse uno dei ricordi migliori che aveva di casa sua, un milione di ricordi e sempre gli sembrava che nessuno fosse un buon ricordo… invece il caffè gli piaceva; quante volte da ragazzo aveva atteso in cucina che si spandesse quello stesso aroma, per poi magari bersi frettolosamente la sua tazzina appoggiato, in piedi, proprio al lavello. Perché sua madre non sopportava che nulla fosse messo fuori posto, così Sergio non sfiorava nemmeno il centrino di pizzo allargato sul tavolo, e rubava il caffè, come un ladro. Ma lo stesso amava quel ricordo.

Invece lui ed Elena si sedettero con comodo davanti alle tazzine che lei aveva sistemato in un vassoio, fecero ancora due parole. Poi lei riprese il suo lavoro, Sergio vide che stava sterilizzando dei vasetti, suppose che riguardassero le misteriose pratiche che quotidianamente l’ infermiera esercitava sul vecchio Giovanni. Quanto a lui, quando Sergio gli batté, prima di andarsene, la mano su una spalla dicendogli – Stai in gamba, Giovanni, ci vediamo domani – sobbalzò, per un momento un guizzo di espressività si contrasse sul suo volto rugoso quasi come ad esprimere un sorriso sarcastico, il sorriso preferito di suo padre nei suoi confronti. Ma prima di capire se era davvero quello, si spense, Giovanni ripiombò nel suo oblio, e Sergio tornò ad attraversare il cortile vuoto. Risalito in macchina andò verso la propria casa, dall’ altro lato della piccola città, dove anche lui abitava.

Nel breve tragitto in auto riandò mentalmente alla mattinata che aveva trascorso a scuola. Insegnava lettere, alle scuole medie. Da molti anni aveva smesso di pensare che quella potesse essere una missione, il suo personale contributo ad una timida ipotesi di miglioramento del mondo; da giovane sì, che l’ aveva pensato, ma appunto era passato troppo tempo, e il suo rapporto con l’ istituzione scolastica, sempre sofferto, era diventato negli ultimi tempi quasi insopportabile. Per fortuna c’ erano i ragazzi, incolpevoli, con loro occorreva tirare dritto, ma era sempre più difficile, faticoso.

Appunto proprio quel mattino, guardandoli tutti, mentre con la testa china sui fogli scrivevano le risposte della verifica di storia sulla prima guerra mondiale, si era chiesto se valessero tutti i suoi sforzi ad accendere almeno un pensiero libero, non convenzionale, in quelle menti giovani. Sapeva quanto fossero già così pregne di giudizi, pregiudizi, schemi, assorbiti dalle famiglie della loro buona provincia operosa… ma nonostante ciò era sempre disposto a lasciarsi sorprendere dai pensieri veri dei ragazzi, quando fortuitamente gli capitava di entrare in sintonia con loro.

Ripensava alla mattinata appena trascorsa, perché nella terza dove aveva presentato la verifica, gli era capitato di dover sedare una lite tra un ragazzo, Marcello, un impulsivo prepotentello figlio di un piccolo imprenditore, e Andrej, un ragazzo moldavo che era arrivato appena un paio di mesi prima. Andrej era ostile e indisponente, questo era chiaro a tutti, ma Marcello l’ aveva insultato pesantemente, e in un primo tempo solo con minacce riguardanti le ripercussioni possibili del suo comportamento sugli esiti dell’ esame di fine d’ anno, Sergio era riuscito a far tacere Marcello. Poi aveva cercato di farlo ragionare, di impostare il discorso basandosi sulle notizie dell’ emigrazione italiana nella Americhe, affrontata col programma di storia appena la settimana prima, ma era stato inutile, si accorgeva che Marcello lo guardava con occhi vuoti, non era in grado di stabilire una connessione tra quelli che potevano essere stati i suoi bisnonni a cercare lavoro altrove, e le stesse necessità che avevano spinto la famiglia di Andrej a fare lo stesso passo. Marcello aveva borbottato: -Prof, lei avrà anche ragione, ma questi vengono e ci rubano il lavoro.

Adesso a Sergio veniva da ridere, a ripensarci; il fatto era che Andrej si stava rivelando studente molto brillante, specie in matematica e scienze, aveva saputo dalla collega che insegnava quelle materie… probabilmente con grande facilità avrebbe potuto soffiare il lavoro a Marcello, un domani; anzi, per come la vedeva lui, c’ era da augurarselo.

Adesso era arrivato a casa. Riprese la borsa, ma lasciò sui sedili posteriori buona parte dei libri e scartoffie che avevano trasformato la sua auto praticamente in uno studio. A lui piaceva utilizzare tanti libri diversi, per interessare i ragazzi, e a scuola aveva a disposizione solo un piccolo cassetto in sala insegnanti, che registri vari erano sufficienti a riempire: così caricava in macchina, che col tempo era diventata una vera biblioteca viaggiante.

Quando entrò in casa sentì che anche lì qualcuno aveva preso da poco il caffè. Infatti Enrico, il figlio più giovane, era ancora in cucina con la tazza davanti, perso davanti al video del portatile.

- Ciao pà, tutto ok?- gli chiese ovviamente senza aspettare la risposta. Sergio gli sfiorò il collo con due dita, gli piaceva sempre il contatto con la pelle calda dei suoi figli, gli ricordava un tempo che sembrava lontanissimo, in cui giocava tanto con loro e li faceva ridere. Adesso spesso li faceva ridere, ma non era sicuro che fosse un buon segno. Gli sembrava sempre che lo prendessero in giro, e questo gli lasciava un senso di vaga insicurezza sulle proprie reali capacità paterne.

Si versò le due dita di caffè rimasto nella caffettiera, si sedette davanti a Enrico e lui gli sorrise distrattamente, quasi senza vederlo. Apprezzò lo sforzo, e portò nel lavello entrambe le tazzine vuote.

Guardò l’ ora, erano quasi le cinque, tra poco Silvia sarebbe rientrata dall’ ufficio, e per quella sera sarebbero stati al completo, perché Guido, il figlio più grande, invece aveva preso una stanza da universitario e tornava solo al venerdì sera, quando tornava. Una sera come mille altre, pensò, e si sentì improvvisamente vecchio.

Per scacciare quella sensazione si accinse subito al lavoro che doveva finire, per il giorno seguente, di correzione dei testi di verifica dei ragazzi di terza. La scuola aveva introdotto da poco regole severe, sui tempi di riconsegna dei compiti svolti in aula. Lui ricordava i propri tempi da studente, quando poteva capitare che alla riconsegna dei “ temi” svolti in classe, allora si chiamavano così, ci si fosse completamente dimenticati che cosa si aveva scritto. A lui era sempre dispiaciuta, quella lunga attesa: già da allora metteva passione nelle cose che scriveva, lo mortificava che ci potesse volere tanto tempo per aver voglia di leggere cosa aveva messo nero su bianco.

Comunque, la terza B gli dava dei pensieri, succedevano cose che non gli era ancora capitato di dover gestire. Ripensò ancora a quelle tensioni che spesso recepiva, come quel mattino, tra gli italiani e gli stranieri, davvero numerosi, e poi prese dal fascio di fogli protocollo che aveva sulla scrivania dove correggeva i compiti, il primo; l’ aveva lasciato lì la sera precedente, in sospeso.

Giorgia B. aveva scelto la traccia 2, di invenzione, aveva anche specificato “ horror”, accanto al titolo che aveva dato al proprio elaborato: “ Il campeggio”.

Sergio scorse le righe tutte di scrittura tonda, da bambina, dove i puntini delle “ i” sembravano palloncini, grandi, le “ o” uguali alle “ a”, le acca inesistenti…

“ Mi chiamo Giorgia, ma chiamatemi pure Beba… col mio tipo, il mio ragazzo, e un'altra coppietta… cercando su Internet… una bella festa di Halloween… una festa di 3 giorni in un campeggio… partimmo con un pullman… arrivammo in un bosco… i primi due giorni meravigliosi, poi allo scoccare della mezzanotte… stavamo nella tenda, facevamo l’ amore… arrivarono due uomini, non li vedevamo in faccia… gridavo ma portavano via il mio ragazzo, volevano stare con me e la mia amica… il campeggio era diventato una foresta selvaggia… io non ci volevo stare ma la mia amica a detto che per lei andava bene, uno dei tipi era un bel ragazzo… poi all’ improvviso tutto finisce era stato solo un sogno…”

In tanti anni Sergio aveva capito che la vita dei ragazzi spesso è molto meno infantile di quanto i loro genitori si immaginino, ma cosa lo sorprendeva da qualche tempo e lo lasciava spiazzato era la totale mancanza di filtri che, in queste ultime annate di studenti, spesso coglieva negli scritti e anche nelle parole dei ragazzi. Come nel caso di Giorgia, che secondo lui non aveva inteso provocarlo, come in un primo tempo sarebbe stato indotto a credere… no, lei trovava naturale raccontare un fatto di fantasia così, perché nelle sue fantasie, se non nella sua realtà, quei pensieri, quel modo di intendere i rapporti rientravano con naturalezza.

Il suo dubbio riguardava se valesse la pena di richiamare espressamente l’ attenzione dei genitori su quello scritto, o se si sarebbe limitato a mettere il voto, e a constatare che questo fosse controfirmato dalla madre o dal padre – dalla madre, pensò, gli sembrava di aver capito che i due genitori fossero separati - che presumibilmente avrebbe firmato senza leggere il testo.

Con Giorgia aveva già parlato di quella che lui aveva definito la sua “ filosofia di vita”, per darle risalto: le aveva detto che non si buttasse via, che la vita a quattordici anni non poteva essere solo l’ amore, i “ bei tipi”, come li chiamava lei, i ragazzi con cui uscire in discoteca. Lei l’ aveva ascoltato educatamente, gli aveva detto “ ok prof”. Intanto si accarezzava il piercing, un brillantino su un labbro. Perché Giorgia, a ben guardare, era ancora una, tra i suoi allievi, che sembrava poter ascoltare, pensare. Sergio ricordava come si era incantata quando avevano fatto Shakespeare, aveva letto ad alta voce dei brani, si era illuminata e sembrava un’ altra persona, immedesimandosi in Giulietta. Anche qualcun altro si incantava, perfino un paio tra i maschi; ma poi tiravano fuori come una specie di sguardo rassegnato, come a dire “ la vita è diversa”. E ricominciavano a messaggiarsi per combinare l’ uscita serale, o lui non sapeva cos’ altro.

Aveva appena finito con i voti dei testi, quando sentì la chiave girare nella serratura, era Silvia che rientrava.

-Solito casino dei treni…- gli disse mentre si toglieva la giacca, aveva l’ aria stanca, la borsa della spesa in mano, gliela prese e la portò in cucina; Enrico si era eclissato, sentendo arrivare sua madre, appena si sentì un “ ciao mà” dal lontano della sua camera, in fondo al corridoio.

La cena fu silenziosa, se si escludevano i battibecchi tra Silvia ed Enrico, riguardanti il disordine nella stanza e i brutti voti a scuola; poi c’ erano le notizie del TG. Un tempo non accendevano la televisione, quando erano a tavola, adesso sembrava impossibile farne a meno, e Sergio in fondo era grato a quel rumore di fondo, che pure non seguiva, che rendeva meno pesante l’ atmosfera regalandole una finta animazione. Cosa temeva di più, era il proprio silenzio, eppure quando Silvia lo rimbrottava con i suoi “ e digli anche tu qualcosa!” era più forte di lui, non aveva voglia di dire proprio niente ad Enrico, non quello che Silvia avrebbe voluto: rimproveri, esortazioni a fare meglio. Impossibile, per lui. Non avevano ancora smesso di riecheggiargli nelle orecchie tutte le prediche di sua madre, e sì che di anni ne erano passati tanti, e sua madre se n’ era andata da un pezzo.

Dopo, al solito modo, con la televisione che animava con la sua finta vitalità, Silvia che un po’ ascoltava un po’ si affaccendava nelle cose di casa, lui che odiava lasciarsi andare su quel divano dove gli sembrava che tutta la vita fosse destinata a consumarsi; e allora tornava al suo tavolo, magari ai compiti, più facilmente a qualche libro in sospeso, o all’ odiata- amata rete da cui, in qualche modo e con suo stesso disappunto, era affascinato.

Silvia era ostile, ma non riuscivano a parlarsi, non ci riuscivano più da tanto tempo. Non ne era certo, ma gli sembrava che non gli importasse più.

Michele Serri 10/05/2013 23:53 1 1387

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