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Con passo lento cercai di avvicinarmi alla camera mortuaria e dovetti fare uno sforzo immenso per entrarci: la mamma era distesa sul marmo, vestita di nero, con il viso pallidissimo, le labbra socchiuse e i capelli un po’ ribelli.
Non riuscivo a capire come quel corpo inerme avesse potuto partorire nove figli...
Sfiorando le sue mani, ebbi la stessa sensazione di gelo che si prova quando si tocca un oggetto freddo nel buio o la lama di un coltello.
La sua eleganza le dava qualcosa di signorile e quell´aria un po’ autoritaria non era scomparsa del tutto dal suo viso.
La guardavo e non sapevo cosa dire: avevo fatto l´impossibile per raggiungerla, ma la neve mi aveva tradito...
Ricordo ancora i suoi racconti sulla Guerra di Liberazione, il suo modo spigliato di parlare e la sua voglia di vivere; soprattutto non riuscirò mai a dimenticare che quel giorno era pallidissima.
Il resto, la sua lunga degenza in ospedale, la dialisi peritoneale, il corteo funebre, la messa in suo onore «mai celebrata» e la peripezia per seppellirla al cimitero di Amardolce appartengono soltanto alla storia degli altri.
La sua si era conclusa, quel giorno a Liberofiore, sotto quella nevicata pesante come il piombo.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.
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«Ogni volta che cerco di scrivere qualcosa sulla scomparsa di mia madre, mi vengono i brividi perché mi ripeteva sempre che sarebbe stata sfortunata anche dopo la morte.
Come sempre, aveva perfettamente ragione, perché quando morì, all'ospedale, la sua bara fu trasportata da un camion dei Vigili del Fuoco e nevicò così tanto, quel giorno di gennaio del 1993, che la Messa a suo suffragio fu celebrata frettolosamente all'interno di una chiesa buia e fredda.
(I nomi dei paesi sono inventati ma la storia è vera)» |
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