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Il mistero di donn'Arturi

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Donn’ Arturi era sempre vissuto là sul quel balconcino, cintato tutt’ attorno da una ringhiera in ferro battuto, di quelle che si vedevano una volta e che ora son diventate rare come le conche in rame, ed era rimasto là anche quella volta che si era addormentato per il suo ultimo viaggio.

Era stato un uomo tranquillo nel suo collettino liso, ma sempre pulito come se l’ avesse appena indossata quella camicia bianca, con quel suo sguardo perso come se l’ avesse dimenticato in qualche angolo della casa e con quel suo mezzo sorriso stampato in viso che non sapevi mai se fosse di contentezza o di amarezza.

Il tempo per lui non aveva ore, né minuti, forse neanche giorni, continuava a passare stento ed impassibile come quelle pioggerelle primaverili, mentre lui continuava a starsene là a guardare il mare con la sua rena bianca dove batteva l’ onda e, guardando quel batti e ribatti, soleva dire che la vita era questa, un inutile correre avanti ed indietro, un andar su arrancando per poi ridiscendere giù di corsa, magari ruzzolando.

Ciò che incuriosiva di più in lui era quel suo sguardo sempre fisso che si disegnava in quegli occhietti acquosi ed arrossati da una congiuntivite che s’ era portato dalla guerra, da quel che diceva lui quelle rare volte che scambiava qualche parola con don Guglielmo.

A don Guglielmo piaceva quell’ ometto sempre vestito di scuro nel suo vestito di lana color grigio fumo di Londra, che sicuramente aveva visto tempi migliori anche se era sempre stirato ed impeccabile; come gli piaceva pure chiedergli del suo tempo trascorso in guerra.

A domande del genere donn’ Arturi ammutoliva stringendo le labbra ed irrigidendosi mentre una ruga sottile e profonda gli si formava all’ angolo sinistro della bocca, come se fosse stato spaccato, e sulla fronte gli se ne disegnava un’ altra altrettanto profonda che, guardata con più attenzione, ricordava stranamente una cicatrice. Poi, girando gli occhi stanchi verso il suo interlocutore, rispondeva in modo evasivo:

- Acqua passata … acqua passata don Guglielmo.

I tanti curiosi di questa misteriosa guerra di donn’ Arturi ne parlavano spesso, c’ era chi diceva che era stato repubblichino e chi partigiano, ma la verità non la conosceva e, forse, non l’avrebbe conosciuta mai nessuno, ma le due cicatrici c’ erano e non avevano l’aria d’ essere segno di pallottole o schegge ma, più probabilmente, sembravano essere state prodotte da percosse di nerbo o di corda coi nodi.

Il giorno delle votazioni lui non s’ era mosso dal suo balcone nonostante lo stillicidio di quella pioggerella sottile sottile che sembrava volesse penetrare fin dentro le ossa. Sua moglie, la maestra, chiamata così perché in paese era stata la maestra di tutti, lo aveva chiamato più volte, ma lui, che spesso faceva finta di non sentire, non le aveva risposto, ed alla fine, come se avesse avvertito qualcosa di strano le aveva chiesto:

- Hai detto qualcosa?

- Sarà la quarta volta che ti chiamo … hai dimenticato che dovevamo andare a votare? Ora si è fatto anche tardi ed è pronto il pranzo.

Lui, dopo essersi alzato, tirando dentro la sedia e lanciando un ultimo sguardo verso le scuole dove c’ erano le votazioni, era entrato nella sala dicendo:

- Non vale la pena andare a votare, tanto il bastone ce l’ hanno sempre loro.

Istintivamente aveva portato la mano alla fronte sfiorando quella ruga che virava dal roseo al violetto fin quasi a divenire livida a seconda del suo stato d’animo. Non era andato a votare quel giorno … troppi ricordi, troppi strappi e graffi profondi a quella che era la sua vita di uomo mite e tranquillo.

A volte di notte, diceva la maestra, si svegliava di soprassalto farfugliando parole incomprensibili, ed alla sua domanda:

- Arturi … Arturi che c’è?

Lui rispondeva:

- Niente, niente … dormi.

Tutte le volte la stessa storia e lei si chiedeva cosa turbasse tanto profondamente suo marito che era sempre stato apparentemente calmo e tranquillo, motivo principale per cui aveva scelto di sposarlo quando lui s’ era messo a corteggiarla. Proprio per quel suo modo d’ essere, sempre tranquillo e a modo, posato sia nel modo di comportarsi, e con lei che con gli altri, sia nel modo di parlare mai alterato, mai innervosito.

Andava a messa la domenica e si metteva in un angolo, appartato ed a capo chino, mormorava le sue preghiere e prima che la messa fosse finita andava via fermandosi, poi, in piazza a veder uscire la gente dalla Chiesa, appoggiato alla fontana con il suo abbeveratoio per muli e asini ma soprattutto per i cavalli dei carrettieri di passaggio. Quella fontana con la sua scritta dell’ anno di costruzione “ 1924”, scolpita a mano sul frontone al di sotto il capitello gli era molto cara e, soprattutto, era un suo punto di riferimento, da là si poteva vedere qualsiasi cosa avvenisse in centro.

Lui era orgoglioso di quella fontana in marmo, l’ aveva disegnata lui ed il podestà l’ aveva fatta realizzare con il marmo di San Marco, sì quel calcare rosso tanto pregiato che veniva portato un po’ dovunque, anche in continente.

Di tanto in tanto il suo sguardo si perdeva nel vuoto, si avvertiva nettamente che qualcosa tra i suoi ricordi lo metteva a disagio facendolo trasalire e don Guglielmo, sempre pronto a cogliere ogni suo minimo cambiamento di umore, per quel senso di amicizia che li legava, cercava di indagare con domande, più o meno dirette su ciò che

lo tormentava. Donn’Arturi stringeva le labbra e, corrugando il suo visetto, si chiudeva in un silenzio ostinato che spesso si protraeva fino alla sera.

La maestra non cercava mai di stuzzicarlo o di farlo parlare quando s’ avvedeva di questo suo silenzio, gli passava affettuosamente una mano dietro le spalle e con gesto rassegnato si dirigeva verso la cucina come se avesse qualcosa da controllare o da fare. Sapeva bene che per tutto il giorno lui se ne sarebbe rimasto zitto.

Don Vasileddu, che era stato con lui per un certo periodo nello stesso reparto, raccontava che allora era sempre allegro e sorridente, anche se riservato, e che dopo il suo trasferimento ad un altro reparto l’ aveva perso di vista fino al suo ritorno. In quel periodo doveva essere accaduto qualcosa che l’ aveva totalmente cambiato come se qualcosa l’avesse spento. Appunto proprio dal suo ritorno da quella guerra, che tutti avevano approvato, applaudendo ai discorsi pieni di enfasi del podestà, ma che, in fondo in fondo, nessuno aveva voluto, lui era cambiato radicalmente e sua moglie l’aveva sempre confermato senza spingersi mai oltre con le sue confidenze neanche con la sua migliore amica, donna Maridda. Sta di fatto che quell’ immediato dopoguerra per donn’ Arturi era stato un continuo tormento fino a quando, una sera, era esploso con padre Lucio al quale aveva gridato in faccia tutta la sua rabbia accumulata in anni di silenzio. L’ aveva fatto senza pensare, improvvisamente, come quando un fiume in piena supera tutti gli ostacoli e trabocca oltre gli argini travolgendo tutto. Da quel giorno si era chiuso nel suo mutismo e nessuno era più riuscito a farlo parlare eccettuato qualche laconico “ si” o “ no” o “ chissà”.

Don Guglielmo ne era dispiaciuto ed aveva cercato di saperne di più chiedendo a don Vasileddu che aveva assistito alla scena ed al prete cosa gli avevano detto che aveva scatenato quella sua reazione così violenta; l’ unica cosa certa era che a provocarla era stata una battuta, un po’ scherzosa ed un po’ ironica, di don Lucio sulla sua strana guerra.

Questo era quello che pensava don Vasileddu che era l’ unico a schierarsi dalla sua parte, quando la gente mormorava, dicendo:

- Che ne sapete voi su cosa deve sopportare un uomo in certe situazioni …

voi eravate tutti quanti pronti a battere le mani ai discorsi e poi … a dare il

benvenuto agli Americani quando sono arrivati.

E da ciò si poteva capire che in fondo in fondo qualcosa lui la sapeva anche se non si era mai sbottonato con alcuno.

A poco a poco donn’ Arturi si era sempre più appartato non scendendo in piazza neanche per prendere il tabacco o per andare a bere alla fontana; non era andato più neanche a messa se non a Pasqua ed a Natale per accontentare Nataledda, sua moglie. Alla fine, dopo la sua caduta per le scale, che lo aveva costretto ad un’ ingessatura scomoda ed alle stampelle, aveva cessato del tutto di uscire di casa e di avere contatti con la gente ai cui saluti rispondeva solo con qualche cenno del capo o con una smorfia di cortesia.

E così la sua esistenza, in quel balconcino adornato di fiori che lui annaffiava ogni mattina, si era protratta fino a quando pian piano s’ era spento in un tardo pomeriggio d’ autunno senza che nessuno fosse mai riuscito a fargli svelare cosa fosse realmente accaduto.


Rasimaco 13/09/2012 09:20 3 1657

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.
I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Nota dell'autore:
«I nomi sono tutti di fantasia. Questo racconto è tratto dalla mia raccolta personale "volti e figure del passato".»

Commenti sul racconto Commenti sul racconto:

«Grande è la capacità di quest'autore di saper tenere incollato il lettore alle sue righe. Nel leggere questa storia ci si aspetta da un momento all'altro che finalmente si sveli il filo conduttore, ma a differenza dei migliori racconti gialli, qui rimane intatta e insoddisfatta la curiosità, si è convinti che prima o poi l'autore aggiunga qualche altra riga per svelare il mistero. Sapiente la descrizione dei pesonaggi, ricca di dettagli che aiutano a ben inquadrare non soltanto l'epoca in cui è ambientata ma soprattutto la caratteristica rurale, semplice, ma non per questo meno intrigante della quotidianeità così sapientemente raccontata.»
Enrico Baiocchi

«Sono L. Crocetti, e mi sorprendo di entrare nei commenti della prosa sia pure con vecchio mio nick.
Ho letto il racconto di Rasi e, pur se un Autore non gradisce paragoni perché vuole affermare solo la sua originale personalità, con sincerità egualmente dico che questa fine ed accorta prosa, espressa in una apparente semplicità (che è il vanto della vera letteratura) mi riporta con la mente alle ambientazioni siciliane del Verga, sia che pensi ai Malavoglia o a talune novelle dello stesso autore.
La vera arte della prosa consiste nel saper scrivere senza involuzioni ed inutili svolazzi. Qui ci siamo.
E non si dorrà certo Rasimaco se, nel leggere questa sua ottima stesura, ho pensato al Verga. E non dico poco...»
Lorenzo Grazzini

«Ho respirato, in questo racconto di ambientazione siciliana scritto magistralmente, un'intrigante atmosfera per molti versi simile a quella dei romanzi di Andrea Camilleri (la differenza principale è che Rasimaco non infarcisce, come il suo più famoso conterraneo, il racconto con sporadici termini dialettali) .»
Antonio Terracciano

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leggere ed entrare nella verità del tempo.Ciao (Enrico Baiocchi)



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