Mare in tempesta fuori e dentro.
Aggrappato alle catene della cuccetta, nel riposo dal turno di lavoro, per l’ ennesima volta sballottato dalla bufera, stomaco e mente, inveivo contro me stesso ed il giorno in cui avevo fatto quella scelta.
Il corpo si tutelava e ribellava, inondato dal timore estremo del naufragio, dimentico del fascino e della pace interiore che solo l’ oceano sconfinato sa dare in notti dominate da stelle e riflessi di luna.
“ Ad Ottobre mollerò tutto: deciso”.
Lontananza, tempeste e solitudine; “ la mia fortuna dev’ essere altrove”.
La notte mi conduceva con volontà febbricitante al turno del mattino col Dio dell’ abisso che, ascoltando le mie suppliche, anche quella volta irretiva le procelle e portava alla quiete.
Acque placate, quindi, all’ alba.
Sulla smisurata superficie salata l’ onda lunga dopo la bufera; sul piatto tavolo del Comandante a galleggiare un telegramma per me.
“ Papà grave ricoverato urgenza ospedale, contattaci presto. Mamma”.
Si, un telegramma. Perché satelliti, cellulari, internet allora erano ancora nella mente dei più bravi scrittori di fantascienza ed i contatti con la terraferma erano affidati a solerti operatori di sconosciute stazioni radio, loro si, naviganti coraggiosi delle intangibili ma altrettanto turbolente onde elettromagnetiche.
Viscere attanagliate e polmoni in fame d’ aria da lì ai giorni successivi che, dopo il ritorno in porto, vedevano le mie ferie al capezzale di mio padre, più di una notte in veglia.
Silenziosa, spesso rantolante la sua lotta per la vita in quegl’ interminabili e caldi giorni d’ estate. Silenzioso il mio essere accanto a lui a sostenere il suo strappare minuto dopo minuto l’ esistenza.
Passò la calda stagione, tornarono la vita e le parole. Mi disse fra le prime cose, in un soffio: “ Avrei voluto fare tante cose con te ed ora non ci sarà più tempo”.
“ Ma che dici papà, vedrai che potremo recuperare tutto, ancora pochi giorni di ospedale… le tue condizioni migliorano”.
Settembre: iniziò la convalescenza, finalmente a casa.
Nel mentre, mi trascinavo nello svogliato studio per l’ esame di Ottobre, grazie al superamento del quale avrei conservato per sempre il lavoro sulle navi.
Ma volevo davvero continuare a vita quella vita sofferta? “ Se mollo tutto prenderò una discreta liquidazione, tornerò all’ Università: una laurea, altre prospettive….”. Non ancora un amore a confortarmi e raccogliere le mie angosce…
Giocavamo a carte quel pomeriggio, io seduto accanto al suo letto: “ Papà, ho deciso, non farò l’ esame!”.
Lanciò le carte all’ aria. Si elevò, pur seduto, sul giaciglio sofferto con l’ inimmaginabile forza che può solo venire della certezza dei propri ideali ed urlò:
“ Sei impazzito! A cosa è servito tutto il tuo sacrificio e quello della tua famiglia fatti fin’ ora. Cosa farai… io no ho più la forza per esserti d’ aiuto, non so se mai guarirò, cosa sarà di te. Non lasciare quella che può essere la certezza di un pane a fatica addentato ma vero, non frutto di fantasia e sogno. Non farmi questo!”
Un quarto di secolo mi separa dal bivio creato da quelle parole.
Non ho una laurea, ho vissuto tempeste in mare ancora più spaventose, ho sofferto ancora la solitudine. Ma ho letto tanto, anche e soprattutto negli occhi e nei cuori dei miei compagni di avventura. Su quelle rotte ho incontrato mia moglie con la quale ho unito al nostro viaggio le nostre due figlie.
Vivo con loro in un amato approdo guardando la luna riflessa sul mare calmo, accanto ai ricordi.