Se solo ci lasciassimo vivere dalla Vita senza cercare in qualche modo di fermarla, controllandola nel nostro invecchiare, indirizzando gli eventi a nostro piacimento e prevedendone gli sviluppi imprigionandoli in una sfera di cristallo.
Quante domande abbiamo rivolto ad una tazzina, chiedendo a lei la risposta di ciò che noi stessi le abbiamo suggerito, lasciando sul suo fondo la traccia di quello che è scritto in maniera inequivocabile sulle foglie del tempo, filtrate da un cuore senza età.
Nella nostra folle corsa da sempre aneliamo a collocarci al primo posto, senza considerare che anche l’ultima posizione è occupata da noi. Tendiamo a trascurarla e a fare in modo che non se ne parli, quando basterebbe non considerare la coda come un qualcosa di indipendente rispetto alla testa e dunque come un rivale da azzannare in un girotondo che ha del ridicolo.
Abbiamo preferito essere protagonisti di un dialogo a metà, all’interno del quale abbiamo intuito le risposte dell’interlocutore semplicemente affidandoci a quanto la vita esaudiva di rimando. Peccato che dall’altra parte della conversazione ci fossimo ancora noi e che la vita si limitasse a ribadire le nostre affermazioni anche quando in realtà le stavamo ostinatamente negando.
Già perché la vita, essendo figlia del nostro esempio, si limita a ripetere quanto ci ha sentito sostenere, ma essendo incapace di comprendere la negazione, ci ha restituito l’evidenza di quanto da noi stessi ricusato.
Dunque eravamo noi a detenere sia la domanda che la risposta ma era come se fossimo incapaci di starci ad ascoltare, come se la vita sapesse più cose di noi di quanto noi stessi volessimo ammettere.
Ed allora ci siamo fatti prendere dall’ansia di conoscerci prima che fosse la vita a rivelarcelo.
L’ansia di sapere se l’amore ci fosse infedele ci ha reso poi più infelici della scoperta del tradimento stesso. Già perché nella conferma dei nostri sospetti siamo riusciti a trovare quella soddisfazione che ci è venuta a mancare nella fiducia che non abbiamo saputo riporre in noi stessi prima ancora che nell’altro.
Siamo stati così ciechi da affidare al riflesso dello specchio il compito di impersonare la realtà, identificando in quell’immagine, la verità che non siamo stati capaci di vedere guardando il nostro cuore direttamente negli occhi.
Ed ecco che ci ritroviamo a programmare le nostre giornate, calcolando la traiettoria del vento e misurando l’intensità della pioggia, così da impedire che una folata improvvisa scombini i nostri piani mostrando quella parte di noi che avevamo accuratamente nascosto sotto un cumulo di foglie secche.
Dopotutto ci riesce così bene delegare ad altri il compito di rappresentarci, dunque non lamentiamoci se ultimamente il cielo sopra le nostre teste è sempre plumbeo: relegando nelle intemperie i nostri sogni, non abbiamo fatto altro che dosare le nostre lacrime arginandole nel grigiore del nostro umore.